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L'opinione
11 Giugno 2025 - 08:46
Il Referendum dell’8 e 9 giugno è stato tutto tranne che un momento di partecipazione democratica alla vita del Paese. La campagna è stata aggressiva e platealmente contro il Governo e contro Giorgia Meloni. Il quorum del 50% + 1 degli aventi diritto al voto è rimasto una chimera.
L’affluenza è stata del 30,58%, circa 20 punti al di sotto della soglia di validità. I votanti sono stati 14.067.256; di questi, facendo una media anche per eccesso dei voti espressi su ciascun quesito, l’87% ha barrato il “SI”, quindi meno dei 12 milioni e trecentomila voti ottenuti dal Governo Meloni circa 3 anni fa. Al di là del dato morale, il primo insegnamento è che l’uso propagandistico dello strumento referendario non paga.
E che se si vogliono fare campagne politiche è serio farle con i propri soldi e non con quelli pubblici. Sarebbe di circa 80 milioni il costo dell’operazione. Altra considerazione è che i quesiti sul lavoro, che hanno registrato, seppur di poco, una minore partecipazione rispetto a quello sulla cittadinanza, non hanno mobilitato la platea dei lavoratori dipendenti, pari nel 2023 a 26 milioni e seicentomila, e nemmeno quella del solo settore privato pari a 17.382.601 unità. Terza indicazione è che l’Italia non ha avuto il solito taglio Nord/Sud.
Il Paese si è diviso tra regioni rosse e non. I dati più alti si sono avuti in Toscana e nel Centro Italia e quelli più bassi in Trentino, Veneto Calabria e Sicilia. Quarto punto è che, volendo sprofondare nella politicizzazione dell’analisi, i partiti di Centro, che hanno scelto di recarsi ai seggi per esprimere contrarietà ai quesiti, hanno ottenuto circa il 5% dei consensi.
Tali valutazioni, certo non nobilitanti, ma utili a ribadire che il referendum è una cosa seria, che non si presta facilmente a strumentalizzazioni, servono in realtà come premessa per commentare l’atteggiamento dei promotori che, pur di non riconoscere il fallimento, cercano di far passare il concetto che il procedimento referendario sia inadeguato.
La ipotesi messa in circolazione di una modifica dell’art. 75 della Costituzione ripropone la logica della battaglia sul cosiddetto “6 politico”. Invece di migliorare ciò che non va, si abbassano gli standard. Le proteste sessantottine, associate più o meno propriamente al 6 politico, reclamavano il diritto allo studio per tutti e combattevano, a loro dire, la selezione di classe. Ottennero l’egualitarismo che livellava il merito.
Dietro la proposta sul referendum analogamente c’è il messaggio diseducativo di rendere meno stringente lo strumento abrogativo pur di farlo passare. In altre parole livelliamo verso il basso la democrazia per fingere che ci sia. Come ha spiegato il professor Cassese, la soglia fu determinata pensando che il potere di abrogare una legge approvata dal Parlamento, che rappresenta tutti i cittadini (almeno teoricamente!), può essere riconosciuto solo alla maggioranza di essi.
In questa logica, il referendum costituzionale o confermativo non prevede una soglia perché esso, al contrario dell’altro, è una forma di partecipazione diretta del popolo al processo legislativo nella fase construens, che si aggiunge al voto parlamentare rafforzandolo. Si vorrebbe abbassare il quorum per avvicinarlo alla soglia dell’astensionismo.
Un modo per piegare uno strumento costituzionale ad esigenze contingenti. Se non vinco, non sono io che ho perso, ma sono le regole del gioco che non funzionano. Spero che l’argomento sia solo un diversivo e che venga presto archiviato, per far spazio alla questione seria del decadimento dei valori, che anche in questo appuntamento si è riproposta nella sua preoccupante dimensione.
L’unica cosa che può salvarci da guerre e violenze è ripartire dall’etica della politica, che si declina nel rispetto dell’altro, nel confronto democratico e nell’impegno per il bene comune.
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