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La riflessione

C’era una volta il Sud: dal lamento all’elogio

Il recente “monumentale” saggio storico-fotografico di Marcello Veneziani, dal titolo: “C’era una volta il Sud” segna una sorta di svolta nella saggistica e nella narrazione del nostro Mezzogiorno

C’era una volta il Sud: dal lamento all’elogio

Marcello Veneziani

Da più di qualche mese il recente “monumentale” saggio storico-fotografico di Marcello Veneziani, dal titolo: “C’era una volta il Sud” segna una sorta di svolta nella saggistica e nella narrazione del nostro Mezzogiorno. Si ha la sensazione che ci si trovi di fronte a qualcosa di molto diverso, rispetto al passato, e cioè, alla totale archiviazione del lamento, sempre così “abbondante e diffuso” e a un principio molto netto dell’elogio di un mondo “epico”.

Non diversamente definibile per quanto è riuscito a fare e a costruire pur tra tante difficoltà e limiti di varia natura. Tutto ciò è documentato e verificabile nella mirabile e minuziosa opera, appena citata, da “album di famiglia” corredato da foto che ne fissano per sempre tempi, valori, identità, mestieri, personaggi, luoghi anche con significativi eccellenti apporti narrativi. D’ora in avanti ognuno, quale che ne sia cultura e attività, può disporre di una straordinaria rassegna, un inventario della memoria tra i più documentati al mondo del nostro Sud.

Che non c’è più, unico e irripetibile, sempre però vivo nel ricordo, di cui il mito di personaggi tipici, di esistenze esemplari continua a tramandare molteplici insegnamenti. Di qui la motivazione oggettiva di dare maggiore risalto al valore dell’opera di Veneziani, collocandone la segnalazione nello spazio riservato ai fondi, ai commenti esclusivi della quotidianità.

Questo fervore di studi, la riscoperta, la rivisitazione di antiche civiltà, da cui noi discendiamo, non nasce a caso. Riflette il bisogno imperioso, a fronte tante odierne difficoltà e incertezze epocali, a ricercare solidi ancoraggi nel passato. Attraverso la specifica cultura della conoscenza dei territori, che potrebbe essere molto preziosa anche per gli amministratori locali, nel fargli prendere maggiore consapevolezza della straordinaria importanza delle “culture” locali.

In questo caso comparabili con quella onnicomprensiva dell’Appennino. Un “serbatoio” dell’anima contadina - secondo il “padre del Censis” Giuseppe De Rita - che ci ha permesso di superare le peggiori crisi, mai consegnatasi alla rassegnazione in ogni calamità, fonte di numerose e eccellenti imprese di grande successo e scrigno di straordinarie memorie culturali, artistiche e devozionali.

È ora che questo ingente patrimonio, materiale e immateriale, diventi la grande forza trainante dei borghi, dei paesi, aprendo le chiese. Molte restaurate con fondi pubblici nazionali o regionali, e poi anche di palazzi storici, castelli espropriati e restaurati e non farne più come avviene oggi: “musei della muffa” ma centri vitali per l’arte, l’artigianato, prodotti tipici le vere risorse del territorio. Mete di visite, di un turismo culturale.

Non se ne può più di una cronica e sterile “convegnite” sterile, in cui idee e propositi i più condivisibili, durano il tempo dello svolgimento di un convegno. Così non hanno futuro per la mancata registrazione dei contenuti dei vari interventi, quindi non fruibili per preziosi utilizzi.

Ma manca soprattutto, nonostante tante iniziative, la rivalutazione della più antica ricchezza dei luoghi di territori, di chiare radici Italiche, che può servire ad assegnare al Sud quei meriti dovuti e mai riconosciuti. Un discorso auspicato addirittura un secolo addietro, nel 1921, da Benedetto Croce, che, nella sua Storia del Regno di Napoli, riservò analisi originali sul valore dei Sabelli, gli antichi Sanniti e i popoli Italici.

“Che combatterono - scrisse- la grande guerra sociale per l’italianità contro la esclusiva romanità e che sempre qui sorse una città, cui fu dato il fatidico nome d’Italica”. Una posizione di sorprendente inimmaginabile lungimiranza per quei tempi, rafforzata dal resto, nel sottolineare “che le altre genti che si fusero con le loro, erano tra le più ingegnose e ardite che la storia conosca: Greci, Longobardi e Normanni e che queste popolazioni di mente sveglia e di duttile laboriosità, dettero prova di resistenza ai disagi e ai più aspri climi dimostrando il loro vigore nell’emigrare e nel lavorare in paesi lontani”. Giudizi in netta controtendenza rispetto a tanti faziosi pregiudizi sul Sud. La parola ora giusta è una: ”Onorare la tradizione”.

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