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la riflessione

Referendum: credere ai quesiti più che al quorum

Una grottesca storia tutta italiana

Referendum: credere ai quesiti più che al quorum

Questa dei referendum è - oramai dalla notte dei tempi - una grottesca storia tutta italiana. Ricapitoliamola brevemente, limitandoci alla sola tornata consultiva di qualche giorno fa. Cinque quesiti referendari, tutti con una loro ragionevolezza e un grande peso sociale.

Potrei dire, senza tema di smentita, che le domande poste potevano tranquillamente costituire alcune tra le ragioni d'essere di un dibattito democratico e civile finalizzato alla crescita di una società e di uno stato. E come poteva non essere così quando si parla di licenziamenti illegittimi e contratti a tutele crescenti, indennità per licenziamenti nelle piccole imprese, contratti a termine, responsabilità solidale negli appalti e cittadinanza italiana agli stranieri (di cui abbiamo bisogno come del pane).

Temi rilevanti, se non addirittura cruciali, per la sopravvivenza di una repubblica come quella italiana "fondata sul lavoro". Allora perché - si chiederebbe l'uomo comune - si è dovuti arrivare addirittura a consultare i cittadini se le questioni poste erano così cruciali e di interesse comune? Perché i due schieramenti politici hanno dovuto sfidarsi con toni così contrapposti e talora addirittura offensivi quando erano in gioco principi non solo giuridici ma addirittura etici?

E, soprattutto, perché il risultato (nullo) ottenuto è stato esso stesso strumentalizzato (se non manipolato) a tal punto da inasprire ancora di più gli animi e ideologizzare un argomento che invece meritava solo di essere posto nei giusti termini e in quegli stessi termini valorizzato, sempre e solo "in nome del popolo italiano" tutto?

Non desidero sviscerare quanto illustri analisti politici hanno fatto molto meglio di me. Il mio scopo è (come sempre) utilizzare un evento di alto impatto mediatico per costruirci intorno una riflessione, che provi ad andare solo ed esclusivamente nella direzione dei bisogni reali di tutta quella gente che ha espresso la sua opinione in piena libertà e in piena libertà vuole che sia riconosciuta e apprezzata.

Tanto votare quanto astenersi dal farlo sono facce della stessa medaglia, che vedono nella vita democratica il loro alveo naturale e conclusivo. Nessuno si dolga per chi è stato a casa (o non ha ritirato le schede referendarie al seggio) né gioisca oltremodo per chi alle urne ci è andato, fornendo comunque il suo contributo alla riuscita pur parziale dell'evento. Il verdetto finale, del resto, è talmente inequivocabile che cercare di arrampicarsi sugli specchi tanto per una sconfitta come per una vittoria è di per sé delittuoso, proprio perché non permette, a chi deve imparare dagli errori commessi (legislatore compreso), di trarne spunti utili a risparmiare (anche economicamente) e ottimizzare l'uso dello strumento adottato. Ultima considerazione.

Ma perché i partiti politici (quelli usciti evidentemente perdenti dalla consultazione appena conclusa) invece di sfidarsi e promettersi (finte) botte da orbi in tempi più o meno certi (le prosime elezioni politiche?), non si rimboccano le maniche e tornano a parlarsi e a legiferare meglio e con più larghe convergenze su argomenti che di certo possono migliore la vita comune il più a lungo possibile?

Il passo successivo sarà "dimenticare Venezia" che, fuor di metafora, significa rimuovere quanto di sgradevole è stato detto e fatto prima, durante e dopo l'ennesima debacle referendaria. Altro che affilare le armi per il futuro, sarebbe molto meglio se le nostre forze politiche e sindacali moltiplicassero i loro sforzi per una società più articolata e giusta, legiferassero non per interessi - anche solo ideologici - di parte, e riscoprissero un buonsenso che, a conti fatti, varrà non meno di 10 altri possibili referendum. E, dulcis in fundo, ricordassero che, a ogni consultazione democratica, a vincere o a perdere non sono loro, ma solo ed esclusivamente il popolo italiano. 

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