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L'analisi

Guerre e guerre, il mondo sul baratro di un incendio

Che il mondo oggi sia in fiamme, è constatazione agevole, anche se qualitativa

Guerre e guerre, il mondo sul baratro di un incendio

Iran, macerie a Teheran dopo l'attacco israeliano

Che il mondo oggi sia in fiamme, è constatazione agevole, anche se qualitativa. Un’ottantina di teatri di guerra pare siano una costante degli ultimi decenni.

Sicché sarebbe cosa trascurabile che, l’altro ieri, se ne sia allestito uno (relativamente) nuovo, con la guerra – preventiva – aperta da Israele contro l’Iran. Ed invece è ben chiaro che le cose non stiano in questi termini, perché ci sono guerre e guerre, se si guarda agli equilibri mondiali.

La guerra in Ucraina, per dire, coinvolge blocchi di potere mondiale, che proprio intorno ad essa si vanno nuovamente aggregando e coalizzando, favorendo divisioni e faglie profonde che sarà sempre più difficile colmare ed appianare.

La guerra d’Israele contro l’Iran è un conflitto tutt’altro che regionale, come ognuno intende:troppo superficialmente si cerca di banalizzarla, ipotizzando che il mondo arabo, ormai occidentalizzato (e che vuol dir più Occidente, oggi?), resterà a guardare la caduta del regime di Teheran come gli spettatori ad uno spettacolo da corrida.

A parte che in quell’area del mondo si produce il petrolio e che la preannunciata chiusura dello stretto di Hormuz per decisione iraniana, da sola sarebbe in grado d’infliggere danni all’economia mondiale – già largamente destabilizzata dalle iniziative di Vladimir Putin – di portata epocale, è evidente che l’area mediorientale viva d’equilibri delicatissimi e sempre pronti ad essere rimessi in gioco.

L’instabilità in quelle zone è già grandissima, sol che si tenga conto delle condizioni di straordinaria precarietà in cui si muovono, per dirne solo un paio, i regimi iracheni e siriani. Insomma, quel conflitto con l’Iran – che si aggiunge all’inferno nella striscia di Gaza, all’invasione di territori della mai pacificata Cisgiordania, alle incursioni nel Libano, e nello Yemen – corre il rischio d’essere un deflagratore d’imprevedibile potenzialità.

Ma ci sono anche un’altre ragioni per le quali l’esplosione mediorientale può trasformarsi in un casus da guerra mondiale. La scelta dell’autocrate russo d’invadere l’Ucraina può dirsi essere stata compiuta a freddo e con una determinazione colonizzatrice, tutto sommato delimitata.

È stato il fallimento dell’originario disegno da blitzkrieg a complicare non poco le cose: se il cosiddetto zar avesse ottenuto quel su cui puntava – sostituire rapidamente il governo in carica con suoi docili emissari – le cose si sarebbero probabilmente esaurite lì, almeno per un bel po’ di tempo, e tutto sarebbe andato ‘al suo posto’.

Le complicazioni sono venute dal cronicizzarsi della guerra, dallo stabilirsi di alleanze frontiste, dalle trasformazioni che l’economia di guerra ha comportato sui mercati internazionali e, non ultimo, dalla necessità di modificare le politiche economiche degli stati occidentali, in vista di esigenze difensive sempre più pressanti.

Tutto questo ha comportato una serie di ripercussioni a catena, le cui conseguenze finali – anche culturali – sempre che di una fine possa predicarsi, nessuno può prevedere anche, e forse proprio per ciò, per il complicarsi ed il destabilizzarsi dello scenario internazionale nel suo complesso (da tener d’occhio il rinnovato attivismo della Corea del Nord, dietro del quale c’è appena un po’ di Cina).

Ma comunque la guerra putiniana è una guerra che potrebbe essere conclusa quando chi l’ha provocata riterrà d’avere raggiunto i propri obiettivi. Ben altra cosa l’ottantennale conflitto mediorientale, quello che vede protagonista Israele, il quale combatte per la propiasopravvivenza contro organizzazioni terroristiche ben finanziate dal mondo arabo, partiti armati ed un odio radicalizzato tra opposti estremismi.

In questo caso, la soluzione del problema davvero non esiste sul piano diplomatico: lo dimostra il fallimento d’ogni iniziativa, a qualsiasi livello portata avanti dal 1948 in poiper rendere possibile una convivenza che si mostra sempre più impossibile.

A meno di non credere che la soluzione sia quella ipotizzata dall’attuale, longevo premier di Tel Aviv, che sembra aver pensato il tutto possa risolversi spianando la striscia di Gaza e trasferendo altrove – suppongo, dato che altrimenti si dovrebbe pensare all’eliminazione fisica – quel che rimane del popolo palestinese che colà vive, vive si fa per dire, dato dopo il proditorio attentato di Hamas che sette ottobre 2023 lì il tempo passa in forme che con l’esistenza poco o nulla hanno da condividere.

Ma il fallimento d’ogni soluzione diplomatica si spiega perché in quel martoriato areale ciascuno ha ottime ragioni per non piegarsi e risorse sufficienti a farlo.

Ottime ragioni, perché dalla nascita dello stato d’Israele ad oggi i conflitti – ed anzi, la stessa nascita dello stato d’Israele è stato un conflitto – sono stati infiniti, macchiandosi ciascuno dei fronti combattenti di efferatezze senza fine, d’inimmaginabili atti di disumanità, di azioni d’una ferocia tale da lasciare conseguenze psicologiche in chi le ha subite e nei familiari superstiti d’una tale profondità da non essere ipotizzabile alcuna forma di risarcimento.

E poi non c’è dubbio che entrambe le parti dispongano di risorse per combattersi pressoché illimitate: da una parte v’è la finanza internazionale che assiste Israele da sempre attraverso l’infinita influenza politica di Washington; dall’altra v’è la straordinaria ricchezza di molte realtà arabe che non hanno mancato di finanziare in ogni modo il terrorismo antisraeliano.

Ma soprattutto v’è la forza delle idee: l’idea che ciascuno dei due fronti coltiva, d’avere storicamente ragione e ciascuno dei due fronti ha storicamente ragione, dato che quando le azioni e le reazioni s’infittiscono e si protraggono per tanto lungo tempo, non c’è più alcuna possibilità di assegnare ragioni e torti con una qualche parvenza di giustizia.

Restano quindi solo le ragioni della forza: che è quanto sta accadendo da tempo, anche se in questi ultimi anni con particolare radicalità. Di qui l’imprevedibilità delle conseguenze, tenuto anche conto dell’estensione globale dei fronti politici in contesa. 

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