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La riflessione

La condanna di Romeo in attesa delle motivazioni…

L’Italia – in particolare Napoli – è un Paese che il ruolo dell’imprenditore non solo non lo assiste, ma lo combatte “a prescindere”, lo sospetta, anche in assenza di notizie di reato

La condanna di Romeo in attesa delle motivazioni…

Alfredo Romeo

Giovedì scorso la prima sezione penale del Tribunale di Napoli ha condannato l’imprenditore Alfredo Romeo ed un suo stretto collaboratore per una presunta ipotesi di corruzione, tutta da accertare ovviamente nei successivi gradi di giudizio.

Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza, che aspettiamo e rispettiamo, ma ci fidiamo delle durissime dichiarazioni dei difensori i quali, come riportato dal “Roma”, contestano un provvedimento «incomprensibile nel merito» ed «incoerente con la prova dibattimentale raccolta». Sarà loro compito dimostrarlo in sede di Appello e siamo fiduciosi che lo faranno.

Intanto però, da una come me che non ha mai avuto alcun tipo di rapporto, né di conoscenza né professionale o di altro tipo con l’imprenditore Alfredo Romeo, se non per aver documentato in un libro la sua odissea giudiziaria e quella che ha colpito tanti altri capitani d’azienda all’ombra del Vesuvio, alcune considerazioni andrebbero fatte.

La prima è che l’Italia – in particolare Napoli – è un Paese che il ruolo dell’imprenditore non solo non lo assiste, ma lo combatte “a prescindere”, lo sospetta, anche in assenza di notizie di reato, per il solo fatto che ha posseduto ed investito capitali, sorvolando sul fatto che ha rischiato di suo, profondendo energie e creatività, dando lavoro, come nel caso di Romeo, a migliaia di persone che altrimenti sarebbero andate ad ingrossare le fila del disagio sociale, della miseria, talvolta della violenza.

La seconda considerazione è che, per affermare tale principio, una certa parte della magistratura inquirente (per fortuna minoritaria) non ha esitato a desertificare interi apparati industriali, sorti in territori dove prima esistevano solo fame e desolazione, salvo poi dopo decenni, quando ormai di quelle aziende restavano solo brandelli di macerie sbranati dalle “curatele”, dover ammettere che le ipotesi accusatorie si sono rivelate alla prova dei fatti del tutto infondate.

I casi, tutti documentati, potrebbero essere tanti, leggerli fa venire i brividi, pensando a quante migliaia di famiglie dei lavoratori, incolpevoli, sono state travolte da tanta furia giustizialista, scagliata spesso senza nemmeno uno straccio di prova in grado di reggere nel corso del giudizio.

E che non sia solo Napoli, ma anche l’intero, martoriato Sud della Penisola a scagliarsi contro chi riesce a fare impresa, lo dimostra, uno su tutti, il caso della famiglia Cavallotti in Sicilia: assolti dopo 27 anni ma con tutte le aziende confiscate, nullificate, privati di ogni bene ed oggi costretti a rivolgersi alla Corte Europea per trovare quella giustizia che l’Italia aveva loro negato.

Quello della famiglia Cavallotti è solo un paradigma, forse il più eclatante, di come in Italia a pagare siano solo e sempre le vittime, cominciando dalle famiglie dei lavoratori mandati a casa. Mentre chi aveva letteralmente sventrato quelle imprese senza un valido motivo, continua beato la sua folgorante carriera. Che procede come un treno. Con progressione automatica.

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