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Del Monte Foods nel vortice del Chapter 11: è in vendita

Uno dei marchi più longevi dell’industria alimentare americana ha avviato la procedura di riorganizzazione assistita

Del Monte Foods nel vortice del Chapter 11: è in vendita

«L’uomo Del Monte ha detto sì». Stavolta però non si tratta di approvare una fornitura di frutta esotica, ma di firmare l’istanza di fallimento volontario davanti al Tribunale fallimentare del New Jersey.

Del Monte Foods, uno dei marchi più longevi dell’industria alimentare americana, ha avviato la procedura di riorganizzazione assistita prevista dal Chapter 11 del Bankruptcy Code statunitense, strumento pensato per consentire alle imprese di restare operative mentre si lavora a un piano di cessione o di risanamento: 138 anni di conserve non bastano più a reggere un debito che, secondo i documenti presentati, oscilla tra 1 e 10 miliardi di dollari.

Un fardello cresciuto negli ultimi anni per effetto combinato del calo della domanda di prodotti confezionati, dell’aumento dei costi energetici e di filiera, ma anche di un mercato che premia sempre più packaging sostenibile, produzioni locali e filiere corte.

La notizia, confermata dal presidente e Ceo Greg Longstreet, è destinata a far discutere: il gruppo continuerà a produrre grazie a un finanziamento ponte di circa 900 milioni di dollari, ma l’obiettivo dichiarato è cedere asset e marchi a un compratore disposto a rilanciare ciò che resta della storica insegna.

Nel portafoglio, oltre alle iconiche scatolette di ananas e cocktail di frutta, rientrano i brodi College Inn e i pomodori in scatola Contadina, tutti brand che da decenni campeggiano sugli scaffali di supermercati americani ed europei. Il Chapter 11 non è una liquidazione in senso stretto: la legge americana offre infatti uno scudo ai debitori che vogliono ristrutturare i debiti e cedere in continuità, garantendo così una gestione ordinata dei pagamenti e delle eventuali chiusure di stabilimenti.

Tuttavia, la riuscita del piano dipenderà dalla presenza di investitori credibili: fondi di private equity, competitor strategici o operatori specializzati in operazioni di salvataggio industriale. Senza un intervento tempestivo, l’alternativa è lo smembramento di stabilimenti e licenze, con effetti pesanti anche per l’indotto agricolo.

Il caso Del Monte ricorda, per dinamiche e posta in gioco, altri precedenti recenti anche in Italia. Dalla salvezza di Melegatti alla lunga odissea Pernigotti, le crisi industriali degli ultimi anni insegnano che il peso del marchio, da solo, non basta a garantire la continuità se mancano un piano industriale, risorse fresche e una governance capace di riposizionare il prodotto sul mercato. Intanto sugli scaffali i consumatori continueranno a trovare frutta sciroppata e conserve Del Monte.

Dietro quelle etichette, però, ora si apre una procedura concorsuale sotto il controllo di un giudice, segno di un settore che, anche oltre Atlantico, non è immune da turbolenze profonde. La lezione per tutti, Italia compresa, è che la solidità di un marchio storico non può mai prescindere da una gestione finanziaria sana, da modelli di produzione aggiornati e da un’attenta lettura delle nuove abitudini di consumo.

Chi rileverà Del Monte — se qualcuno lo farà — dovrà saper traghettare una tradizione ultracentenaria verso un mercato in rapida trasformazione. Perché «dire sì» oggi, senza un piano industriale credibile, non basta.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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