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Un mondo di tregue prima annunciate e poi rimangiate

Fermare le armi è metà del lavoro. L’altra metà è sciogliere le radici

Un mondo di tregue prima annunciate e poi rimangiate

Il 2025 sarà ricordato come l’anno delle tregue annunciate e subito rimangiate. A Gaza, dopo mesi di devastazione, Israele si dice disposto a fermarsi per sessanta giorni. Hamas ci pensa, Biden e Trump si contendono la regia di un accordo che, per ora, resta sulla carta. Netanyahu insiste: Hamas va eliminato.

I razzi non si fermano  e chi vive a Gaza resta prigioniero tra bombe e promesse. Sul Mar Rosso, la tregua negoziata tra Stati Uniti e ribelli Houthi ha garantito rotte commerciali più sicure per un mese, poi sono tornate minacce e droni. Dietro c’è la paura di bloccare Hormuz, far schizzare il petrolio, fermare i traffici.

In Asia, la notizia più sorprendente: India e Pakistan, due potenze nucleari, fermano i colpi sul Kashmir grazie a pressioni silenziose di Washington. Ma la linea di confine resta armata, i soldati non lasciano le postazioni, basta un colpo per far crollare tutto.

In Africa, Congo e Ruanda firmano a Washington un’intesa storica: via le truppe, stop alle milizie, reintegro dei gruppi armati. Ma l’M23 resiste, i villaggi non si fidano, le Ong denunciano nuove violenze nonostante le firme. Intanto in Siria, in Libano, nel Caucaso, la tregua è un armistizio di facciata: Armenia e Azerbaijan hanno fermato le artiglierie, ma nessuno ha davvero vinto. Israele e Hezbollah mantengono un equilibrio fatto di minacce e silenzi.

La verità è che queste tregue sono pause tecniche. Servono a chi ha in mano armi e bilanci per guadagnare tempo, a chi media per mostrarsi garante di qualcosa che non controlla davvero. Ma le cause restano: confini tracciati a tavolino, risorse contese, popoli senza voce. La pace vera inizia quando si spengono le armi, tornano i prigionieri, arrivano gli aiuti, si ricostruisce una normalità. Oggi non c’è quasi nulla di tutto questo.

Eppure, ogni pausa di fuoco porta uno spiraglio: convogli umanitari, famiglie che riescono a fuggire, tavoli che riprendono a respirare. È qui che la comunità internazionale dovrebbe giocare la partita vera: non con slogan, ma con garanzie, ispezioni, pressioni sui governi e sostegno concreto a chi resta sul campo quando i microfoni si spengono.

Fermare le armi è metà del lavoro. L’altra metà è sciogliere le radici: miseria, interessi incrociati, dittature, conflitti etnici mai risolti. Se non si sciolgono quelle, la parola tregua resterà buona per un titolo, non per una pace duratura.

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