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l'intervento
19 Luglio 2025 - 10:14
Nel cuore di quella primavera del 1920 il Comandante, così i legionari chiamavano Gabriele D'Annunzio, usciva dal palazzo del Governo di Fiume vestito con l'uniforme degli Arditi. Non era un giorno come gli altri: era il momento in cui la natura si risvegliava dal torpore invernale e con essa rifioriva l'anima. di quegli uomini che avevano scelto di seguire il Vate in quell’impresa fiumana destinata a passare alla Storia. Quella marcia primaverile con gli Arditi della Guardia iniziava così, con un invito che sembrava un verso di poesia: "Andiamo a bere dell'acqua e a raccoglier le violette".
Parole che tradivano la sensibilità estetica del poeta-soldato, capace di trasformare anche una semplice esercitazione militare in un rito di comunione con la natura. Il gruppo di legionari si incamminava e il Comandante, con un gesto spontaneo e quasi infantile, strappava un ramo e lo utilizzava per farsi largo tra i cespugli lungo il sentiero. Il legionario genovese Achillini, poco più che un ragazzo, si trovò, a un certo punto, al limite delle forze. Il peso della mitragliatrice sulle spalle era diventato insopportabile, il respiro gli mancava e il pallore del volto tradiva il suo sforzo. Quando finalmente si lasciò cadere sull'erba, liberandosi delle cinghie dell'arma, il suo gesto non passò inosservato agli occhi attenti del Comandante.
Fu in quel momento che si rivelò, una volta di più, la vera grandezza di D'Annunzio non tanto come poeta o come soldato, ma come uomo capace di comprensione profonda. "Che cos'hai?" domandò al giovane legionario, con una sollecitudine che andava oltre i semplici doveri delcomando. E quando Achillini, sull'attenti nonostante la stanchezza, rispose con orgoglio "Nulla", il Comandante comprese che quel ragazzo aveva bisogno non soltanto di riposo, ma di un gesto che fosse più forte della fatica fisica. Con il ramo che teneva in mano, D'Annunzio indicò al giovane una piccola sorgente che scaturiva dalla roccia, invitandolo a bere da quella “fontana magica”. Il legionario si chinò e bevve con lunghe sorsate, mentre l'acqua gli scivolava sul collo, bagnandogli il maglione nero. Era come se quell'acqua fosse diventata per lui linfa vitale che gli restituiva energia e speranza. E mentre il Comandante lo osservava con un sorriso paterno, si consumava uno di quei semplici momenti di pura umanità che reserol'esperienza fiumana qualcosa di unico nella Storia. “Stai meglio?" chiese D'Annunzio e alla risposta affermativa del ragazzo aggiunse: "Bene, ora mi ricompenserai portandomi delle violette".
Era più di un ordine: era un invito a partecipare a un rito di bellezza condivisa, un modo per trasformare la gratitudine in gesto d'amore verso la natura che si risvegliava.L’immagine di quel giovane legionario piegato nell'erba, intento a cercare i fiorellini viola, racchiudeva in sé tutto il paradosso e la poesia dell'impresa di Fiume. In meno di mezz'ora Achillini si presentava al Comandante con un piccolo mazzo di violette, battendo i talloni in un saluto militare che contrastava solo in apparenza con la delicatezza del dono. D'Annunzio prese il mazzetto e lo infilò nelcinturone, accanto al pugnale. Ma prima di compiere questo gesto, con una tenerezza che rivelava l'anima del poeta, staccò tre o quattro violette dal mazzo e le porse al giovane legionario: "Queste tienile tu. Fai conto che le abbia raccolte io per te".
In quelle parole si condensava tutto lo spirito di fratellanza che animava quegli uomini. Non era solo un comandante che ricompensava un soldato, ma un uomo che riconosceva in un altro uomo la dignità e il valore, condividendo con lui un momento di pura bellezza. Era la dimostrazione che anche in guerra, anche in un'epoca di tensioni e conflitti, poteva esistere uno spazio per la gentilezza e la comprensione reciproca. Quell'episodio, apparentemente marginale nella grande Storia rivoluzionaria dell’occupazione legionaria di Fiume, racchiude in realtà l'essenza più profonda di ciò che D'Annunzio e i suoi volontari stavano costruendo nella città adriatica. Non era solo una questione di rivendicazioni territoriali o di orgoglio nazionale, ma la creazione di una comunità di uomini liberi fondata su valori che andavano oltre le convenzioni sociali e militari dell'epoca. E quella primavera del 1920 a Fiume non era solo il risveglio della natura, ma il fiorire di vere e forti relazioni umane, di legami che si costruivano attraverso gesti semplici ma carichi di significato.
In quel mondo sospeso tra sogno e realtà, tra guerra, rivoluzione e poesia, uomini provenienti da ogni parte d'Italia e non solo avevano trovato una nuova dimensione di vita che li trascendeva come individui per farli diventare parte di un'esperienza collettiva unica. Il cameratismo che si respirava in quei giorni non era quello freddo e formale delle caserme, ma qualcosa di più profondo e autentico. Era il riconoscimento reciproco di anime che avevano scelto di vivere un'avventura comune, di condividere non solo i pericoli e le difficoltà, ma anche i momenti di grazia e di bellezza. Quella passeggiata primaverile, con il suo carico di violette e di gesti di tenerezza, rimane una delle testimonianze più toccanti di come l’impresa fiumana fosse riuscita a creare una forma di convivenza allo stesso tempo nobile e semplice. Era la dimostrazione che, anche nelle esperienze di vita più difficili, l'uomo può scegliere di privilegiare la bellezza sulla brutalità, la comprensione sulla durezza, la fraternità sulla solitudine.
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