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Milano, l’urbanistica perduta: una crisi che viene da lontano

La parabola di Milano, passata dai “palazzinari” alle multinazionali del real estate, è emblematica di un sistema che ha perso l’orizzonte del bene pubblico

Milano, l’urbanistica perduta: una crisi che viene da lontano

Lo skyline di Milano

Lo scossone giudiziario che ha coinvolto il Comune di Milano in merito alla gestione urbanistica ha scatenato, come da copione, un coro scomposto e retorico di reazioni politiche. Una sorta di teatro dell’ipocrisia, in cui tutti si dichiarano garantisti, ma traggono conclusioni opposte.

Chi invoca dimissioni immediate del sindaco e dell’assessore alla Rigenerazione Urbana, chi le esclude “per rispetto della presunzione d’innocenza”, chi resta nel limbo di una cautela ambigua. Tutto già visto.

Spicca su tutti l’uscita della Presidente del Consiglio, che, invece di restare nel suo ruolo istituzionale, decide di intervenire: “È una scelta che dovrà fare il Sindaco sulla base della sua capacità di governare al meglio in questo scenario”. Una frase talmente anodina da risultare politicamente vuota, eppure significativa: che ruolo ha la Presidente del Consiglio in una vicenda locale? È al governo della nazione o fa politica militante?

A rincarare la dose è intervenuto anche il Presidente del Senato, il quale – sempre nel nome del garantismo – ha sostenuto che il sindaco dovrebbe dimettersi “per manifesta incapacità amministrativa”. Un’affermazione grave e fuori asse per la seconda carica dello Stato, che dovrebbe tutelare l’equilibrio istituzionale, non interferire nella dialettica tra eletti locali e cittadini.

Infine, il ministro della Difesa, improvvisatosi urbanista, accusa la magistratura milanese di voler “sostituirsi al legislatore”. Peccato che non spieghi in che modo i giudici avrebbero violato leggi nazionali o regionali, né in che misura abbiano intaccato il Piano Regolatore Generale della città. Nessuna risposta, solo un’uscita apodittica e fuori luogo.

Ma il punto centrale della questione sta altrove, ed è tragicamente sottaciuto: il silenzio assordante degli urbanisti. La categoria che più di ogni altra dovrebbe interrogarsi sullo stato dell’urbanistica in Italia – accademici, professionisti, amministratori, tecnici – tace. Come se la mercificazione del territorio, la monetizzazione degli indici edificatori, la negoziazione degli standard urbanistici fossero ormai dati scontati e fisiologici.

Si dimentica che l’urbanistica è nata, a metà Ottocento, per porre un argine ai guasti prodotti dallo sviluppo industriale nelle città europee. Era – ed è – una disciplina che ha il dovere di difendere i beni comuni, di rappresentare gli interessi di chi ha meno voce nelle decisioni sul futuro urbano.

In Italia, malgrado le ferite della storia, l’urbanistica ha garantito per decenni un assetto dignitoso alle città. Ma tutto questo ha cominciato a sgretolarsi negli anni Sessanta. La parabola di Milano, passata dai “palazzinari” alle multinazionali del real estate, è emblematica di un sistema che ha perso l’orizzonte del bene pubblico. Oggi, più che mai, servirebbe una nuova consapevolezza urbana e politica. Servirebbe, soprattutto, che gli urbanisti tornassero a farsi sentire.

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