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L'opinione

L’Alaska presenta il conto delle divisioni europee

Si è creato il presupposto del nuovo assetto tra Est e Ovest

L’Alaska presenta il conto delle divisioni europee

Putin e Trump

È chiaro a tutti che oramai l’unica legge realmente efficace, sul piano internazionale, sia quella del più forte. Trump e Putin si sono incontrati nel giorno dell’Assunta in Alaska, scenario evocativo per un vertice tra potenze mondiali desiderose di diventare superpotenze assolute, che ricorda come Russia e Stati Uniti abbiano consuetudine con il baratto di popoli e terre. L’Alaska fu comprata dagli Stati Uniti nel 1867 per un pugno di dollari.

L’agenda dei colloqui USA/Russia aveva, infatti, al primo punto la soluzione del conflitto in Ucraina, senza l’Ucraina, con un evidente approccio proprietario indifferente a diritti e prerogative di uno Stato democratico. E non mi si dica che è lo scotto che Zelensky deve pagare per la sua impotenza militare e la conseguente necessità di aiuti americani. La comunità internazionale si fonda sulla solidarietà e non sul baratto.

Su queste basi era difficile costruire anche solo il primo miglio verso la pace in Europa. Ma si è creato, come volevano i due protagonisti, il presupposto del nuovo assetto tra Est e Ovest. Comprensibile la speranza che l’incontro portasse ad aprire una strada al dialogo. Legittimo, però, era avere qualche dubbio sulle intenzioni dei due protagonisti dell’evento del 15 agosto e sui reali interessi. Il mondo è sottosopra.

L’economia globale è fortemente minata dalla ricerca di nuovi equilibri, perche, proprio all’indomani dell’inizio della guerra russa, si sono manifestate le forti interdipendenze tra Russia, UE e Stati Uniti e sulla necessità di esserci. La Russia isolata o quasi a Ovest, ha iniziato a tessere una importante tela in Medioriente e in Cina. Gli Stati Uniti hanno innescato un braccio di ferro con i mercati minacciando tutti.

Ecco perché si rivela fondamentale la funzione dell’Unione. Da soli non si va da nessuna parte. E la netta presa di posizione dell’UE nel bilaterale con gli Stati Uniti è stato un importante segnale nonché preludio alla significativa accelerazione del processo diplomatico promosso dall’UE.

Nessuna decisone avrebbe potuto essere assunta sulla testa del popolo ucraino e dell’Europa e nessun dialogo avrebbe potuto essere avviato senza un cessate il fuoco. Ursula Von der Leyen ha fatto quanto in suo potere. Di più era impossibile pretendere su tutta la linea della difesa, sia essa economica che militare.

Tutto il vociare scomposto all’indirizzo della Presidente della Commissione Europea ha un solo responsabile: l’antieuropeismo miope di molti condottieri nazionali. Ostacolare il rafforzamento dell’UE sul fronte delle politiche comuni della sicurezza, della difesa e del commercio internazionale senza un disegno alternativo è folle.

Pretendiamo il pugno forte sui dazi, lamentiamo uno scarso decisionismo sugli scenari di guerra, ma continuiamo ad alzare deboli vessilli nazionali contro una minaccia che è globale. Se vogliamo realmente che il conflitto che dilania l’Europa cessi abbiamo il dovere di cambiare registro, vivendo questo momento non come una cessione di sovranità, ma come un tempo per ritrovare le ragioni dell’esistenza dell’Ue e l’utilità di accelerare il processo di riforma della sua Governance.

Per mantenere il punto su quanto chiesto e preteso il 13 agosto nei confronti della Russia, possiamo solo far conto sulla nostra capacità di essere uniti mettendo da parte divisioni interne. Sul cammino per la pace non ci sono maggioranze e opposizioni ma solo popoli responsabili.

L’UE è nata per essere una “comunità di pace e di progresso”. 80 anni di pace hanno consentito a tre generazioni di europei di crescere pensando che la pace sia uno stato acquisito. Oggi la triste scoperta che così non è, ci obbliga a ripensare i nostri comportamenti, ripristinando quella sottile ma fondamentale linea di separazione tra valori fondamentali, immutabili e apartitici, e scelte di governo.

Tornando a noi, vorrei che non fosse trascurata la iniziale scelta di organizzare l’incontro del 15 a Roma, sede superata dalla “piccola” evidenza che Putin è un ricercato internazionale. L’Italia, in quanto stato parte e fondatore della Corte Penale Internazionale, - lo Statuto costitutivo della CPI fu firmato a Roma(non è un caso che si chiami “Statuto di Roma” - ha l’obbligo di procedere all’arresto del presidente russo Putin e di consegnarlo alla Cpi per rispondere alle accuse di crimini di guerra.

Tanto basta a dare il giusto peso della polemica sterile al convincimento di quanti contestano la scelta di Giorgia Meloni di tenere aperto il dialogo con Trump. È una dimostrazione di forza. Ma non basta. 

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