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La riflessione

Difendiamo “o’ scià”, “il respiro” del mondo che vale

Difendiamo “o’ scià”, “il respiro” del mondo che vale

Ero a Lampedusa da qualche giorno, ospite di una struttura più simile alla casa di un amico che a un sito alberghiero. Sveglia, colazione con prodotti tipici, uscita in caicco, per escursioni marine, incantevoli bagni in acque cristalline, chi col piacere di nuotare - non io - e chi di pescare  (idem come sopra). Io mi limitavo a riposare e a godere di sole e mare.

Valorosi pranzi in barca, tra vecchie e nuove conoscenze, qualcuna già diventata tenace e profonda amicizia. Insomma un meritato relax dopo tante e talvolta onerose fatiche. Ma nella tarda mattinata del 13 agosto - proprio quando eravamo sul punto di dedicarci a libagioni e spensierate convivialità - a quei pochi raggiungibili dal lontanissimo mondo di fuori sono cominciate ad arrivare le prime notizie di un naufragio di migranti sulla rotta che da Tripoli porta a quell'isola delle Pelagie.

Qualcuno ha continuato imperterrito a fare finta di niente, una persona ha messo in discussione la veridicità della notizia, qualcun altro (tra cui il sottoscriito) è caduto in un silenzio assorto e malinconico, una specie di senso di colpa cresciuto a dismisura col passare delle ore. Ogni battuta di spirito diventava una ferita, ogni silenzio l'occasione per tornare indietro col pensiero al funesto accaduto.

Alla fine la voglia di saperne di più ha preso il sopravvento sul bisogno (comune) di voltarsi dall'altra parte. E ho letto. Un centinaio di disperati - ma probabilmente molti di più - si sarebbero staccati dalle coste africane tra le 2 e le 4 del mattino del 13 agosto su due barconi fatiscenti.

Uno sarebbe affondato da lì a poco, obbligando tutti ad ammassarsi su quello superstite, altrettanto precario, che infatti in breve tempo, "a causa del moto ondoso", si sarebbe capovolto. Un centinaio di miglia da percorrere, poche ore di viaggio e il gruppo avrebbe goduto di una meta sicura, per quanto misteriosa e provvisoria, lontana dalle miserie e dalla fame e (anche) da quella masnada di aguzzini, di ogni ordine e grado, di ogni nazionalità o tutela, liberi o (brevemente) imprigionati, a cui vengono, per misteriosi accordi internazionali, ogni tanto consegnati questi fuggitivi per la macellazione di turno.

Basterebbe - mi diceva un amico lampedusano - mettere a disposizione traghetti di linea dall'Africa alla civilissima Europa per evitare sfruttamento, disonore, disumanità e morti. E soprattutto la vergogna - lo ripeto ancora tre volte, la vergogna, la vergogna, la vergogna - che pesa su tutti, compreso il sottoscritto, che proprio non ha alcuna voglia di tirarsi fuori dal gioco delle colpe o dal suo rimpiattino, tanto caro ai nostri politici, bravi a stigmatizzare scelte e comportamenti altrui, dopo non aver trovato - una volta al potere - uno straccio di soluzione per decenni di malgestioni e sperperi.

"Il più grave naufragio avvenuto nei pressi di Lampedusa da diversi anni a questa parte" - così lo hanno definito. Tra le notizie confuse: 27 morti accertati, di cui 23 recuperati, con loro almeno 5 adolescenti (due di sesso femminile) e una neonata. Mancherebbero, però, all'appello almeno una trentina di persone.

Persone, ripetiamoci questa parola, essere umani che in Sudan, Pakistan, Egitto o da dove accidenti venivano, discendevano da qualcuno, speravano in qualcun altro o qualcos'altro, guardavano caparbiamente al futuro, stringevano o erano stati stretti al cuore, avevano paure e felicità.

Il mare di Lampedusa è il più bello del mondo, porta con sé un colore tra il celeste e il turchese donatogli direttamente dalle mani di un Dio buono e compassionevole. Voglio tornarci ancora a sguazzare, nuotare e giocare. Nessuno me lo insozzi per opportunismo, indifferenza o ferocia.

Nessuno più continui a trasformare quell'incantevole tratto di Mediterraneo in una fossa comune per cercatori di futuro, esattamente come noi. Nessuno sottragga a loro - e a noi tutti - il saluto millenario d'amore e di solidarietà di Lampedusa, quello che i suoi abitanti chiamano semplicemente "o' scià", "il respiro" del mondo che vale.

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