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L'opinione
24 Agosto 2025 - 16:14
Vincenzo De Luca e Luca Zaia
In Italia si va affermando un modello politico che somiglia sempre più a un neofeudalesimo istituzionale. Vincenzo De Luca, governatore della Campania da oltre dieci anni, ne rappresenta l’esempio più noto: comunicazione martellante e teatrale, gestione capillare delle liste, controllo delle nomine, rapporto diretto e personalissimo con l’elettorato.
Un leader che si è costruito una posizione autonoma rispetto al suo stesso partito e che, grazie alla forza del consenso, è diventato protagonista del dibattito nazionale. Non è un caso se si possa dire “De Luca docet”: il suo stile e la sua strategia insegnano, nel bene e nel male, come consolidare un potere locale fino a trasformarlo in dominio personale. Ma sarebbe sbagliato credere che la questione riguardi solo la Campania.
Dal Veneto alla Liguria, dall’Emilia-Romagna alla Puglia, la politica regionale è sempre più segnata da figure di governatori che hanno trasformato il proprio incarico in un regno. Luca Zaia governa ininterrottamente dal 2010 e ha costruito un consenso tale da eclissare il suo partito, presentandosi come volto unico del Veneto.
Giovanni Toti in Liguria ha persino creato un movimento personale, legando il suo nome alla regione e consolidando il potere nonostante le ombre delle inchieste giudiziarie. Stefano Bonaccini in Emilia Romagna ha usato la sua forte radicazione per diventare punto di riferimento nazionale, contendendo spazio al gruppo dirigente del suo stesso partito.
In tutti questi casi si ripete lo stesso copione: le Regioni, nate come strumento di decentramento e partecipazione democratica, sono divenute terreno di poteri longevi, difficili da scalzare, dove il presidente accentra risorse, visibilità e capacità decisionale a scapito delle assemblee elettive e della vita dei partiti.
I governatori gestiscono bilanci miliardari, nominano vertici della sanità e delle società partecipate, influenzano appalti e grandi opere. In queste condizioni il cittadino tende a percepirli come l’unico referente, più vicino e più potente persino del governo nazionale. Si afferma così una dinamica in cui il consenso non si misura più sulla base di programmi o di appartenenze, ma sull’immagine personale del leader.
Si vota l’uomo e non l’idea. Le conseguenze sono chiare: partiti ridotti a contenitori elettorali, opposizioni deboli, consigli regionali marginalizzati, istituzioni subordinate alla figura dominante del presidente. La metafora dei nuovi feudatari è dunque più che una suggestione: descrive l’Italia come un mosaico di potentati locali, ciascuno guidato da un signore che governa con logiche proprie.
Non tutti esercitano il potere nello stesso modo e non tutti lo piegano agli stessi interessi, ma la linea di tendenza è evidente e trasversale, capace di unire Nord e Sud, destra e sinistra. La questione non è più se questo modello esista, ma quanto a lungo il sistema politico nazionale potrà reggere l’urto di un’Italia frammentata in tanti feudi regionali.
Servono limiti ai mandati, regole più trasparenti sulle nomine, un recupero della funzione dei partiti come comunità e non come marchi personali. Senza correttivi, la democrazia rischia di trasformarsi in una somma di vassallaggi. De Luca, con la sua capacità di rendere plastico il concetto di leadership feudale, è solo il più vistoso tra molti. Ma non è il solo, e questo è il vero problema.
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