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L'analisi

Draghi e l’Europa che arretra: manca la voce della politica

Non è mai esistita potenza politica senza forza militare

Draghi e l’Europa che arretra: manca la voce della politica

Mario Draghi

L’intervento che l’ex Presidente del consiglio e soprattutto ex Governatore della Banca centrale europea ha tenuto a Rimini lo scorso 22 agosto nell’ambito dell’annuale meeting di Comunione e Liberazione ha avuto, almeno qui in Italia, ampio risalto.

Eppure, quello che ha detto è a dir poco scontato. Si sa però che nell’arena politica non conta tanto quel che si dice, bensì chi lo dice ed i contesti in cui profferisce. La politica è in gran parte fatta di strategie discorsive, costruite auspicabilmente da esperti e concordate con i titolari del potere mediatico, opportunamente preavvertiti e blanditi.

Sicché, tutto il gioco sta nel trovare i tempi ed i luoghi giusti, tra i quali il palcoscenico di Comunione e Liberazione ha da sempre per la sapiente e corriva scelta dei protagonisti, per la risonanza di quanto colà si dice, per l’inconsistenza degli effetti che quelle dichiarazioni – rese in un contesto ricco d’eco, ma non impegnativo – di regola producono. In breve, Mario Draghi ha osservato che l’Europa è politicamente del tutto inconsistente.

Che la sua illusione di contare s’è infranta contro il disincanto prodotto dalle maniere spicce dell’attuale Presidente Usa, maniere che ha dovuto deglutire senza poter fiatare – o, forse, solo potendo fiatare – le condizioni imposte da oltreoceano: dazi, per un verso, e impegni ad acquistare prodotti nordamericani, dall’altro, al fine di riequilibrare la sgangherata bilancia dei pagamenti di Washinton.

Ora, che l’Europa fosse politicamente inesistente lo sanno da sempre anche i bambini. È restata storica la battuta d’uno che di siffatti temi s’è inteso probabilmente nel secolo passato più d’ogn’altro, Henry Kissinger, il quale godeva a domandarsi quale fosse il numero di telefono da comporre per parlare con Europa, quella politica, non la divinità pagana.

Tipica, corrosiva battuta da cultura pragmatica, che guarda agli effetti concreti, alle pratiche possibili, per stabilire le cose come effettivamente stiano, senza lasciarsi imbambolare da tappeti rossi e coreografie. Dunquenulla, proprio di nuovo. Ma, mi permetterei di dire, nulla di storicamente nuovo.

Perché se un po’ si badasse alla storia (non, ovviamente, per stabilire precedenti che si ripetono, perché mai si ripetono tal quali) per trarne indirizzi per l’azione (ce lo indicava Croce), si scoprirebbe assai agevolmente che non è mai esistita potenza politica senza forza militare, senza cioè la possibilità di far valere le proprie ragioni, avendo sullo sfondo una temibile capacità d’imporsi con la ragione delle armi: che nell’ordine interno, come in quello internazionale, hanno la parola ultima e dunque la parola performatrice, quella che produce effetti.

Solo per fare un esempio tra i più noti: la drammatica sconfitta dell’Invincibile Armata allestita da Filippo II per prevalere nella lunga guerra per l’egemonia in Europa contro l’Inghilterra di Elisabetta I, fece sì che da quel momento in poi l’influenza spagnola fosse radicalmente ridimensionata a vantaggio della mai più arrestata potenza inglese, sui mari, ma anche sul continente. La spiegazione è relativamente semplice: i mercati richiedono il controllo dei territori, il condizionamento dei governi, l’affidabilità delle istituzioni che garantiscono gli scambi.

Tutto questo si ottiene – non con le buone maniere che, al più, sono un rivestimento, apprezzabile, quando c’è, ma non necessariamente richiesto – bensì con la possibilità d’imporre regole e condotte, di pretendere contratti e privative o, più modernamente, condizioni di favore per i propri commerci in cambio di protezione, di disporre di risorse, avvalendosi di banchieri interessati alla protezione di governi solidi per l’esercizio della finanza, quanto mai sensibile ai rivolgimenti politici.

Insomma, tra potere politico ed economia le relazioni d’interscambio sono continue, fitte, inestricabili, non bisognerebbe mai dimenticarlo. Le nostre istituzioni europee, finché hanno potuto, hanno giocato al paese dei balocchi.

Hanno creduto di poter fare proficui affari – notoriamente, a traino tedesco, francese, ed inglese, finché l’Inghilterra ne ha fatto parte (ma i giochi sotterranei, sono più sottili) – dimentiche però che mancava loro il meglio: il potere politico, quello che ha bisogno di farsi valere, se necessario, con la forza delle armi.

Ci si chiederà: e come mai sino ad oggi ha funzionato? Risposta difficile in un breve articolo: ma facile osservare che sino ad oggi l’ombrello militare era assicurato dalla bandiera Stars and Stripes che, attraverso la Nato e parecchio altro, ci teneva tranquilli. Questa storia è finita ed è finita anch’essa per molte ragioni, cui non sono affatto estranei gli affari che, come detto, vanno di conserva con la politica.

Sta di fatto che l’Europa non conta alcunché, in termini di equilibri mondiali e difatti non riesce a produrre un qualcosa di sensato sui due quadranti allo stato più rilevanti per gli equilibri geopolitici, il mediorientale ed i confini ad est del continente. La proposta formulata dal Presidente Draghi è di creare un più possente debito europeo: cosa di certo indispensabile, perché senza risorse nulla si può fare.

Ma il problema continua, a mio avviso ad essere frainteso, ovviamente in simili contesti si possono esprimere solo opinioni, giacché il quadro è tutt’altro che univoco e chiaro. Il problema è politico. Tra i 27 Stati che attualmente compongono questa singolare entità che si autodefinisce Unione Europea esiste o no una coesione politica tale da permettere che si crei una forza comune – anzitutto militare – la quale risponda ad ordini impartiti da un comando rapido e tempestivo che possa contare su forze adeguate, vale a dire con un potenziale di deterrenza da intimorireeventuali nemici, alquanto efficienti ed armati sino ai denti?

Ecco, questo mi pare un tema che la politica dovrebbe assumere nella cosiddetta agenda, un’agenda fatta non per sceneggiate transoceaniche, bensì per concretare strumenti d’azione e di reazione capaci di condizionare le altrui prospettive. A me non sembra sia questa la situazione, tanto differenti sono le composizioni nazionali ed i rispettivi interessi e, soprattutto, le ragioni per le quali i Paesi si sono accomunati nelle assai precarie istituzioni di Bruxelles e dintorni.

Ma certo è questo un tema sul quale lavorare pare sempre più necessario, sempre che prima non pensi il deterioramento ambientale a farsi ragione dell’ingombrante presenza di noi bipedi implumi sulla crosta terrestre. C’è da augurarsi che non sarà così. 

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