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L'opinione
01 Settembre 2025 - 09:05
C’è un filo invisibile che lega i cieli di Gaza alle pianure del Donbas, un filo fatto di sirene, polvere e vite sospese. Negli ultimi giorni Hamas ha detto sì a una tregua di sessanta giorni, scambiando ostaggi con prigionieri, nel tentativo disperato di guadagnare tempo e respiro per una popolazione allo stremo.
Israele tace ancora, promettendo una risposta. Non è la prima volta che la parola tregua si affaccia, e ogni volta sembra più un respiro trattenuto che un vero armistizio. Perché la domanda che nessuno osa affrontare resta lì, come un macigno: chi governerà Gaza il giorno dopo?
Nel frattempo i bombardamenti non si fermano, il Libano resta in bilico, e la regione vive col fiato sospeso. Più a nord-est, in Ucraina, si gioca un’altra partita. Non si parla di pace, ma di “garanzie di sicurezza”: un linguaggio tecnico che in realtà significa missili, batterie Patriot, munizioni che devono arrivare a scadenze regolari e non al ritmo incerto della politica. A Washington e nelle capitali europee si cerca di costruire un meccanismo automatico, un sostegno che diventi sistema e non favore, perché Mosca non sembra avere alcuna intenzione di mollare la presa.
Anzi, continua a martellare il Donbas, puntando sull’usura, convinta che il tempo logori Kyiv più velocemente della sua stessa economia. Due scenari diversi, due storie di dolore che il mondo osserva spesso con assuefatta rassegnazione, hanno però un tratto comune: la pace vera non è vicina, ma ridurre la violenza è possibile. Non con grandi trattati da annunciare sotto i lampadari di un palazzo, ma con compromessi parziali, imperfetti, difficili da raccontare alle opinioni pubbliche. Per Gaza potrebbe significare scambi graduali di ostaggi e prigionieri, corridoi umanitari che funzionano davvero, una tregua monitorata che non risolve il conflitto ma spegne almeno per un po’ il fragore delle bombe.
Per l’Ucraina, un sostegno militare che non vacilla, affiancato da regole minime di sicurezza che risparmino le infrastrutture civili. Non è la fine, non è la giustizia, ma è gestione del rischio, ed è forse l’unico sentiero percorribile oggi. La politica ama i finali, i popoli amano le soluzioni nette, ma le guerre non hanno mai un punto e a capo: sono processi lenti, faticosi, pieni di pause fragili. La scelta che ci sta davanti è chiara e insieme scomoda: accettare l’imperfezione di un processo che salva vite, o inseguire il miraggio di una pace perfetta che non arriva mai.
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