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06 Settembre 2025 - 12:46
Del mio peregrinare intorno al mondo ho quattro vivide immagini di ragazzini d'età scolare: per le strade dell’Havana vecchia, nella campagna dell’East Sussex, sulle alture vicino a Kimberley in Sudafrica, nella metropolitana di Tokyo. Avevano in comune i sorrisi e la goffa, meravigliosa attesa del futuro, ma anche un’altra cosa: una uniforme.
A volte più simile a un grembiule, altre a un abito elegante, ma sempre riconoscibile e indipendente dal ceto sociale. La divisa non è un semplice abito: segna la differenza tra il tempo del lavoro e quello del gioco, tra la responsabilità e il relax, tra la disciplina e lo svago; sancisce la sacralità del luogo e del tempo.
E svolge un’altra funzione essenziale: impedisce che l’ostentazione dei consumi – jeans di marca, polo firmate e così via – diventi il metro di distinzione sociale tra gli alunni. In divisa si è uguali, figli di ricchi o di poveri, e ciò che conta torna a essere lo studio, l’applicazione.
In Italia, questo tema sembra un tabù. Gli anni della contestazione, che avevano nel mirino la società rigida del dopoguerra, ampliarono gli spazi di libertà ma al prezzo dell’indebolimento del principio di autorità. Da allora la divisa a scuola è stata automaticamente associata a modelli retrivi e autoritari, come pure altre pratiche educative considerate oppressive: il voto in condotta, l’educazione civica, persino l’idea di bocciatura o di alzarsi in piedi all’ingresso del docente.
Le conseguenze mi paiono evidenti: la scuola è vissuta come un luogo dove ognuno si presenta come vuole, con l’abito che vuole, spirituale o materiale. In molti Paesi del mondo l’uniforme è obbligatoria, senza eccezioni.
Nei Paesi anglosassoni, Regno Unito in primis, la divisa è parte integrante dell’identità scolastica e comunitaria. In Giappone la divisa (seifuku) è simbolo di disciplina ma anche di appartenenza e orgoglio collettivo. A Cuba, dove la scuola è considerata un pilastro dello Stato, gli studenti indossano uniformi colorate che variano per ordine e grado: camicie bianche e fazzoletti rossi alle elementari, gonne e pantaloni bordeaux o blu alle scuole superiori.
Un segno di uguaglianza e di “orgoglio socialista”, ma anche di dignità per chi, senza divisa, sarebbe costretto a presentarsi in abiti modesti o logori. In Francia la divisa è stata abolita negli anni ’60, in nome della modernità e della contestazione studentesca. Tuttavia, negli ultimi decenni il dibattito è riemerso: non per nostalgia, ma come risposta a nuove forme di distinzione sociale, di bullismo e persino di radicalizzazione culturale.
Alcune scuole sperimentano il ritorno dell’uniforme, soprattutto nei territori d’oltremare. Sono maturi i tempi perché si discuta anche in Italia del ritorno alla divisa senza essere accusati di passatismo o, peggio, di criptofascismo? Capisco che in Italia la divisa ha una storia lunga e controversa.
Dal grembiule ottocentesco, pensato per uniformare i ceti sociali, si passò al severo modello imposto durante il fascismo, con l’iconografia dei “balilla” e delle “piccole italiane”. Dopo la guerra, la divisa sopravvisse a lungo sotto forma di grembiule: nero per i maschi e bianco per le femmine, con il fiocco azzurro o rosa.
Fu solo dagli anni ’70 in poi che iniziò a cadere in disuso, simbolo di un’epoca ritenuta autoritaria, fino a diventare oggi un ricordo lontano. Eppure, la vera libertà non nasce dal permissivismo, ma è la misura della consapevolezza. Torniamo a pensare la scuola come un tempio laico, fucina di spirito critico e di approfondimento culturale, dove libertà e creatività possano finalmente sposarsi con rigore e disciplina.
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