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La riflessione

Un D’Alema tra rose rosse e l’ombra lunga di Pechino

Era in piazza Tienanmen, ha spiegato rimanendo serio, per rendere omaggio alla «lotta eroica del popolo cinese per la sconfitta del nazismo e del fascismo»

Un D’Alema tra rose rosse e l’ombra lunga di Pechino

Massimo D'Alema

Stupisce lo stupore destato dalla presenza di Massimo D’Alema a Pechino in quella stessa piazza Tienanmen già teatro nel 1989 di una feroce repressione del dissenso da parte del regime maoista. D’Alema, si sa, è un politico che nel corso del tempo avrà anche rivisto molte delle sue posizioni, ma mai si è vergognato del suo passato comunista. Anzi.

È un “ex” ma non una “x”, cioè un’incognita riverniciata come molti del suo ambiente. Non è poco. E ce lo vedete voi un “ex” del suo calibro restare insensibile e indifferente nel momento in cui riprende quota il comunismo in versione cinese slatentizzando nuovi sogni di dominio mondiale? Sinceramente, no.

A stupire, semmai, è la surreale intervista tv da lui rilasciata sullo sfondo di petali di rose e di sinogrammi. «Comica», l’ha definita Paolo Mieli dagli studi televisivi di La7. Una stroncatura ineccepibile sotto il profilo storico, ma che forse andrebbe riconsiderata nel contesto in cui è stata resa: una Cina vestita a festa per celebrare di fronte ai leader del cosiddetto Sud globale - tra cui non pochi autocrati, tagliagole, tiranni e despoti vari - gli 80 anni della vittoria sul Giappone.

Un sinedrio quanto meno minaccioso ma che non ha creato alcun disagio al nostro lìder Maximo, capace anche di sfoderare un insospettabile sprezzo del ridicolo nel momento in cui non ha esitato a far debuttare l’antifascismo oltre la Grande Muraglia pur di giustificare la sua presenza in quel simposio. Era a Pechino, ha spiegato rimanendo serio, per rendere omaggio alla «lotta eroica del popolo cinese per la sconfitta del nazismo e del fascismo».

Un D’Alema “pataccaro” è una novità assoluta. Ma oltre la storia c’è la politica e qui il Nostro difficilmente stecca. Ha capito che dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina in termini di legittimazione storica i venti milioni di morti lasciati sul campo dall’Unione Sovietica nella guerra al nazismo non pesano più come in passato e ha iscritto d’ufficio anche la Cina nel club dei belligeranti anti-hitleriani.

Politicamente ha senso ora che sul Cremlino sventola la bandiera russa di Pietro il Grande e non più quella rossa issata all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. Sul piano storico, invece, l’acrobazia è spericolatissima. Sul punto il calendario non mente: la guerra della Cina contro l’invasore giapponese comincia nel 1937, cioè due anni prima dell’inizio del secondo conflitto mondiale e ben quattro prima dall’attacco alle basi americane di Pearl Harbor che porterà Italia e Germania a fianco del Giappone. Guerra di liberazione, in ogni caso, e non ideologica.

E a guidarla, per altro, non fu il comunista Mao Tse-Tung, precursore ideologico dell’attuale Xi Jinping, bensì l’ultranazionalista (e cristiano) Chang Kai Shek, che morirà fieramente anticomunista nel 1975 nell’isola di Formosa, fino a poco tempo fa nota come Repubblica della Cina Nazionalista, antagonista di quella Popolare. Fascismo e nazismo, come si vede, c’entrano ben poco. Ma D’Alema li ha conficcati comunque nella recente storia cinese, attirandosi gli strali dello storico Mieli.

Ma qui a rilevare è l’aspetto politico. Intendiamoci, l’ex-premier non inventa niente: da sempre i comunisti usano il fascismo come comfort zone per tenersi al riparo dall’onere dell’unica prova che realmente temono: garantire libertà laddove governano. E figuriamoci se poteva far eccezione la “nuova” Cina, nonostante il suo feroce e brutale regime. «Certi amori non finiscono - canta Venditti -, fanno dei giri immensi e poi ritornano».

A maggior ragione ora che la forza militare, economica e industriale del regime guidato da Xi-Jinping può far tremare quel poco che resta dell’Occidente. E, si sa, un’ambizionedi leadership planetaria deve poter fondarsi su una legittimazione storico-politica valida ai quattro angoli della Terra.

E quale passaporto migliore dell’antifascismo per superare ogni frontiera? Così si spiega la decisione del regime di Xi-Jinping di commemorare non la Rivoluzione maoista, cioè la fonte della propria esistenza, ma l’80esimo anniversario della guerra vittoriosa della Cina contro il Giappone. Un evento quasi in fotocopia della recente parata organizzata da Putin sulla Piazza Rossa per ricordare il trionfo sui nazisti.

Ma mentre la sfilata di Mosca una coerenza storico-politica ce l’ha, dal momento che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica i russi non celebrano più la Rivoluzione d’ottobre, in Cina la spinta propulsiva della Lunga Marcia maoista è ancora politicamente vitale. Lecito quindi chiedersi perché il regime abbia preferito ricordare la vittoria del nazionalista Chang Kai Shek, nemico irriducibile di Mao piuttosto che la rivoluzione di quest’ultimo. Un vero testacoda.

Certo, si potrebbe obiettare che, tutto sommato, si tratta di questioni di lana caprina, che non sarà un calendario a turbare un pianeta già di suo turbolento e che in fondo ogni nazione è libera di ricordare e festeggiare quel che più le aggrada e ritiene utile ai propri interessi. Tutto vero. Ma è altrettanto vero che le terribili tensioni che scuotono il mondo dovrebbero sconsigliare letture banali e frettolose del presente.

Il ribaltone mnemonico voluto da Xi-Jinping e in un certo senso avallato da D’Alema fa risuonare un allarme che non dovrebbe lasciare indifferenti i sempre meno numerosi assertori del primato dell’Occidente: il cosiddetto Sud globale vuole fondare la propria egemonia su un’inedita concezione della democrazia che s’annuncia assai distinta e distante dalle libertà borghesi introdotte dalla Rivoluzione francese.

Tuttavia, i fallimenti a raffica registrati dalle cosiddette democrazie popolari nel corso del ‘900 costringe chi ancora le governa a fondare storicamente la propria volontà di potenza non più nelle rivoluzioni comuniste bensì nelle guerre antifasciste. Un cambio di passo che dovrebbe convincere l’Occidente a rivalutarecon più decisione il 1989, anno del crollo del Muro di Berlino, anziché restare immobile sul bagnasciuga del 1945, anno in cui è finita la Seconda guerra mondiale.

Il discorso riguarda soprattutto l’Ue: continuare a pensare che quel conflitto l’abbiano perso solo Germania e Italia e non anche l’intera Europa, da allora sotto tutela come oggetto e non più soggetto di storia, è una pia illusione. E di illusioni noi non possiamo più permettercene. Già, in un mondo tenuto col fiato sospeso dall’aggressività di potenze neocomuniste o ex-comuniste a chi giova tenere in piedi la sempiterna opzione antifascista?    

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