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11 Settembre 2025 - 10:13
Nell’età moderna, la nozione stessa di proprietà e di valorizzazione degli asset si sta trasformando in modo silenzioso ma radicale. Viviamo un tempo in cui la dematerializzazione – intesa come progressiva scomparsa della fisicità dei beni a favore di servizi immateriali – ha mutato i confini giuridici ed economici del possesso.
Per comprendere questo passaggio epocale, può essere utile volgere lo sguardo all’età feudale. Allora, il nobile concedeva ai mezzadri l’uso della terra: essi lavoravano, producevano, commerciavano, ma alla fine il fondo rimaneva sempre del feudatario, che con gli anni vedeva accresciuto il proprio patrimonio, mentre i mezzadri rimanevano in una condizione di perenne dipendenza. Bastava un ordine, ed essi erano sostituiti, privati della loro fatica e della loro opera di valorizzazione.
Oggi, mutatis mutandis, il meccanismo si ripete nel mondo digitale. Le grandi piattaforme globali – Google, Meta, Instagram, TikTok – offrono uno spazio che gli utenti popolano di contenuti. Come i mezzadri di un tempo, individui e imprese arricchiscono questi terreni virtuali con il proprio lavoro, con la propria creatività, con la propria presenza sociale. Eppure, il frutto di tale impegno si accumula nelle mani del nuovo “signore feudale”: la piattaforma stessa, che cresce di valore fino a raggiungere miliardi di capitalizzazione, mentre l’utente resta sempre un ospite precario, revocabile con un semplice ban.
In questo processo, la proprietà assume contorni inediti. Un tempo possedevamo un libro, un’enciclopedia, una videocassetta. Oggi siamo abbonati: a Netflix per i film, a una piattaforma di intelligenza artificiale per l’informazione, a un cloud per le foto della nostra vita. Tutto è condizionato al pagamento costante di un canone: non più beni, ma servizi revocabili; non più proprietà, ma licenze temporanee. Basta smettere di pagare, e ci si ritrova senza nulla.
È la nuova dematerializzazione: una società globale in cui l’uomo medio non possiede quasi niente, mentre i nuovi feudatari digitali accumulano valore in misura crescente. Un Medioevo 4.0, in cui al posto dei feudi vi sono le piattaforme, e al posto della terra fertile i flussi di dati.
Occorre una riflessione profonda, giuridica e sociale, su questi processi. Senza un’elaborazione di nuovi diritti – diritti digitali di proprietà, di accesso, di continuità – rischiamo di consegnare l’umanità a una condizione di spoliazione permanente. Un mondo in cui non avremo più un libro sullo scaffale, né un film da conservare, né un’enciclopedia a cui ricorrere. Avremo soltanto chiavi virtuali, che i nuovi feudatari potranno chiudere o aprire a loro piacimento.
E allora la domanda, forse la più giuridica e la più umana insieme, è questa: vogliamo essere mezzadri digitali o cittadini liberi in un nuovo ordinamento dei diritti?
A ben vedere, questa dematerializzazione degli asset non è che l’eco di un processo già avviato da tempo: quello della dematerializzazione della moneta. Per secoli la ricchezza si è ancorata a un bene rifugio – l’oro, l’argento, i giuli, i contanti custoditi fisicamente nelle mani dell’uomo. Oggi, invece, la moneta non è che una scrittura digitale, un saldo su uno schermo, una sequenza di bit che può evaporare al tocco di un pulsante. Le valute digitali di banca centrale, progettate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, si candidano a diventare non un semplice strumento di scambio, ma un meccanismo di controllo pervasivo, in cui la sovranità del cittadino si dissolve in un algoritmo.
Così come non possediamo più i nostri libri o i nostri film, allo stesso modo non possediamo più la moneta. Essa è diventata un bene revocabile, smaterializzato, fragile: domani potremmo svegliarci senza i contanti necessari neppure per comprare il latte. È una condizione che appare come una gigantesca bolla, una ricchezza nominale che può spegnersi al semplice gesto di un’autorità monetaria.
Eppure la moneta, un tempo fondamento della proprietà, era anche la via maestra verso l’impresa. Storicamente, dalla proprietà nasceva l’impresa: i fondi accumulati, i terreni, i capitali tangibili si trasformavano in commercio, in attività produttive, in aziende. Ma se il futuro è solo dematerializzazione, ci si deve chiedere quali strumenti resteranno all’uomo comune per costruire nuove imprese, e quale energia potrà sostenere lo slancio creativo. Il rischio è che la forbice sociale si spalanchi oltre ogni misura: pochissimi soggetti, depositari di tutto, e miliardi di individui ridotti a non possedere più nulla, neppure le basi minime per creare valore.
*Presidente delle Camere penali internazionali
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