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L’ANALISI
19 Settembre 2025 - 15:24
Jair Messias Bolsonaro
Il Brasile ha seguito sgomento il processo sulla fantomatica trama golpista che sarebbe avvenuta tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, e sarebbe stata guidata dall’ex presidente Jair Bolsonaro, condannato a 27 anni e tre mesi di carcere, e da esponenti del suo Governo. Per brevità, ci concentreremo esclusivamente sul ruolo dell’ex presidente. Relatore del procedimento è stato il ministro della Corte Suprema (STF) Alexandre de Moraes.
Primo problema: secondo un’interpretazione consolidata, la Corte Suprema non aveva competenza a giudicare Bolsonaro, poiché al momento dell’apertura del processo non era più presidente né deteneva un mandato federale. La causa, dunque, avrebbe dovuto essere trasmessa alla Giustizia di primo grado. Un vizio insanabile che dovrebbe comportare la nullità dell’intero processo.
Secondo problema: la delazione premiata del tenente colonnello Mauro Cid, che ha costituito la base del processo, è stata modificata più volte da lui stesso, fatto che rende anomala la sua ammissione come prova.
Terzo problema: Appare evidente che i disordini dell’8 gennaio 2023, quando i palazzi del potere a Brasilia furono presi d’assalto, non avevano il livello di coordinamento e la capacità di destabilizzazione di un vero colpo di Stato. Inoltre, un video mostra il ministro responsabile del Gabinetto di Sicurezza del Governo Lula, generale Gonçalves Dias, che riceve uno dei primi assalitori. Governo e STF hanno limitato l’accesso ai video di numerose telecamere che avrebbero potuto chiarire meglio i fatti.
Quarto problema: la decisione di aprire un processo contro un ex presidente per presunti attacchi all’ordine democratico, secondo la prassi, avrebbe dovuto essere sottoposta al plenum del Tribunale (11 giudici), e non alla prima sezione, composta da soli cinque magistrati: Alexandre de Moraes, Cármen Lúcia, Cristiano Zanin, Flávio Dino e Luiz Fux.
Quinto problema: tre dei cinque giudici presentavano evidenti conflitti di interesse. Moraes è un noto avversario politico di Bolsonaro; Zanin è stato avvocato di Lula nel caso “Lava Jato” ed è stato nominato da quest’ultimo; Dino, pure nominato da Lula, in passato ha attaccato Bolsonaro definendolo “il demonio in persona”. Secondo la normativa brasiliana, nessuno dei tre avrebbe potuto partecipare a un processo che coinvolgesse l’ex presidente.
Alla fine, solo Luiz Fux ha votato per l’assoluzione di Bolsonaro, basandosi su criteri tecnici più che politici. Fux ha rilevato che la decisione del STF del marzo scorso sul “foro privilegiato” per i politici in vigore anche al termine del mandato non poteva essere applicata retroattivamente e che la tardiva messa a disposizione di 70 mila gigabyte di prove - pari a 255 milioni di messaggi - aveva reso impossibile la difesa. Un vero e proprio data dump (enorme massa di dati, ndr) che viola il diritto al contraddittorio e dovrebbe portare alla nullità del processo.
Secondo Fux, l’invasione della Piazza dei Tre Poteri non può comportare la condanna di chi non vi ha preso parte né l’ha incoraggiata, e le responsabilità devono essere valutate individualmente. Inoltre, ha contestato la Procura Generale della Repubblica, giudicando gli accampamenti dei bolsonaristi di fronte alle caserme come manifestazioni pacifiche, protette dalla Costituzione.
Per molti osservatori, la sinistra e la Corte Suprema mirano a eliminare Bolsonaro dalla scena politica e ad allineare il Paese ai regimi autoritari. Intanto, Eduardo Tagliaferro, esperto digitale ed ex capo della struttura di contrasto alla disinformazione del STF, si è rifugiato in Italia denunciando gravi arbitri di Moraes, episodi che la grande stampa brasiliana tende a ignorare ma danneggiano ulteriormente l’immagine del potere giudiziario. Il processo a Bolsonaro appare dunque un altro passo verso la chiusura dello spazio politico in Brasile.
*docente di Filosofia politica alla UFC
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