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La tassa di successione non ha nulla di bolscevico

Il punto non è “tassare la casa dei figli”, ma riallineare gli incentivi

La tassa di successione non ha nulla di bolscevico

Sergio Marchionne

Marchionne raccontava in un video, divenuto virale, come nei suoi viaggi incontrasse manager e capitani d’industria stranieri entusiasti dell’Italia e delle sue bellezze. Uno di loro si dilungò per un’ora a descrivergli il casale nelle Marche che aveva appena acquistato. Alla domanda di Marchionne: «E sul piano industriale, investiresti in Italia?» la risposta era quasi sempre la stessa: «Ma sei matto?»

Quel racconto fotografa bene una caratteristica della nostra economia: l’Italia è un Paese in cui la rendita appare più conveniente dello sviluppo. Abbiamo tasse sugli immobili tra le più basse al mondo, un’imposta di successione praticamente inesistente e, al contrario, un carico fiscale su imprese e cittadini tra i più alti, accompagnato da una cronica depressione salariale.

Questo squilibrio non è un destino immutabile. Può essere corretto, gradualmente, senza scossoni rivoluzionari, in una direzione che premi di più l’intrapresa, renda i salari più competitivi e, al tempo stesso, scoraggi il mantenimento di ricchezze improduttive tramandate di generazione in generazione (di nullafacenti).

Se allarghiamo lo sguardo oltre i nostri confini, il quadro appare evidente. In Francia le successioni in linea retta pagano fino al 45% dopo franchigie relativamente contenute; in Germania esistono franchigie generose, ma le aliquote vanno dal 7 al 30% (e oltre per parenti lontani o terzi); nel Regno Unito l’imposta colpisce con il 40% tutto ciò che supera le 325.000 sterline, con alcune agevolazioni per la casa di famiglia; negli Stati Uniti l’aliquota federale è del 40% sopra una soglia altissima, quasi 14 milioni di dollari. Persino Paesi molto attenti alla libertà d’impresa come i Paesi Bassi prevedono aliquote fino al 40%.

L’Italia, con il suo 4% per coniuge e figli dopo una franchigia di un milione, è un’eccezione quasi assoluta: un’imposta simbolica, incapace di generare gettito (circa un miliardo l’anno) e dunque di incidere sul riequilibrio del sistema fiscale. Eppure siamo al tempo stesso tra i Paesi con il più alto cuneo fiscale sul lavoro dipendente, che sfiora il 47%: quasi la metà di ciò che un’impresa spende per un lavoratore non arriva mai nella sua busta paga.

C’è qui un punto culturale che merita di essere ribadito. La tassa di successione non è una misura “socialista” o “punitiva”: è parte integrante della tradizione liberale. Serve a distinguere tra ciò che si conquista con il merito, il rischio, l’iniziativa personale, e ciò che si riceve senza alcun sforzo, per il solo fatto di nascere in una determinata famiglia. Serve, in altre parole, a rendere un po’ più giusto il campo da gioco, a garantire condizioni di partenza meno squilibrate. Non livella gli esiti, ma corregge le rendite di posizione.

Da qui una proposta semplice: portare l’imposta di successione al 10%, con una franchigia di 500.000 euro per ciascun erede, accompagnata da agevolazioni condizionate per la continuità delle imprese familiari e agricole. Una misura del genere, applicata con gradualità, potrebbe generare poco meno di 8 miliardi di entrate aggiuntive all’anno. Non una cifra risolutiva, ma che accompagnata ad altre misure nella stessa direzione, può diventare abbastanza significativa per ridurre il cuneo fiscale che grava sui salari, alleggerire gli scaglioni IRPEF della classe media e dare respiro a imprese e lavoratori.

La logica è chiara: meno peso sulle spalle di chi produce e lavora, un contributo in più da chi eredita ricchezze spesso immobili e improduttive.

Un ritocco molto lontano, molto lontano dalle misure dei paesi di economia liberale ma che inverte il segno, nel tentativo di correggere quella stortura che Marchionne aveva colto con ironia: un Paese amato come “location” per ville e casali, ma evitato come sede di investimenti industriali.

La destinazione vincolata del gettito – ridurre gli scaglioni Irpef della classe media, abbattere il costo del lavoro, completare l’abolizione dell’Irap – sarebbe anche un messaggio politico chiaro e trasparente: ogni euro ricavato da una successione di grandi patrimoni va a beneficio di chi lavora, di chi assume, di chi produce.

Il punto non è “tassare la casa dei figli”, ma riallineare gli incentivi: premiare chi rischia e chi lavora, chiedendo un contributo ragionevole a chi eredita patrimoni importanti. Se riusciremo a spostare, anche solo di qualche punto, l’incentivo dalla rendita al lavoro, dal privilegio ereditato all’intrapresa, allora non solo avremo reso più equo il sistema, ma avremo dato un segnale potente: l’Italia non è destinata a essere la patria dei rentiers ma può tornare a essere la terra di chi costruisce, innova e rischia.

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