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LA RIFLESSIONE
22 Settembre 2025 - 09:33
L’approvazione in terza lettura da parte della Camera dei deputati del disegno di legge costituzionale volto alla separazione delle carriere, all’interno della Magistratura, tra organi giudicanti ed organi inquirenti può dirsi un passo importante ed un fatto ‘storico’. Ovviamente, purché ci si ponga all’interno del piccolo scenario italiano perché, se rapportato ai processi geopolitici attuali, possiamo dirlo irrilevante.
Ma ormai da tempo si sa che la microstoria del potere non è meno importante della macro, ameno da quando ad investigare su questi temi è stato un grande come Michel Foucault, e la scuola delle Annales ci ha insegnato a giocare sulla dialettica tra storia di lunga durata e osservazione lenticolare di quel che accade nella dimensione dei più minuti avvenimenti.
Certo è che l’arcaica commistione italiana dell’amministrazione della giustizia penale non aveva alcuna vera ulteriore giustificazione per mantenersi per tale, se non quella che ogni istituzione ha di conservarsi ben oltre le ragioni che l’hanno fatta venire un tempo ad esistenza e ne hanno giustificato la conservazione.
È un abbrivo ed una vischiosità, ciò che fa sì che costruzioni sociali del tutto superate, continuino a restare in piedi, benché se ne constati la lor inutilità, quando non anche la dannosità. Un misto d’opportunismi di apparati che non vogliono (comprensibilmente) lasciare le loro confortevoli nicchie, di forza della tradizione che riesce a legittimarsi per il sol fatto d’esser stata, d’incapacità del nuovo, pur impellente, di farsi riconoscere come necessaria riforma, d’umano affidarsi a quel che già c’è perché s’accompagna al fascino (illusoriamente) tranquillizzante della stabilità, e molti altri elementi che qui non si possono evocare, fan sì che regimi autentiche scorie del passato, continuino a mantenersi in vita – e soprattutto a resistere strenuamente all’evoluzione, quando palesemente non hanno più alcun ruolo da svolgere.
Un esempio eclatante, l’Onu, ormai incapace d’incidere in qual che sia modo sulle vicende della stabilità globale (per le quali colà sarebbe), ma in grado di mantenersi – non si sa per quanto ancora – nonostante i suoi enormi costi, nel panorama internazionale. Ma torniamo alle nostre microstorie.
L’assetto attuale della Magistratura in Italia è il trascinarsi d’un sedimentato equilibrio che rispondeva ad un contesto storico totalmente diverso dall’attuale. Quando i Costituenti associarono nell’articolo 104 la disciplina costituzionale di giudici e pubblici ministeri – peraltro sagacemente differenziandola in termini di garanzie all’articolo 107 – il mondo era entità totalmente differente dall’attuale, per composizione e coesione sociale, per conformazione, qualità e coesione culturale delle classi dirigenti, per omogeneità degli indirizzi che si riteneva dovessero perseguirsi, per omogenea estrazione sociale dei giudici.
Basti dire, ad esempio, che quel che oggi apparirebbe un obbrobrio giuridico, allora era del tutto condiviso: il pretore – istituzione giudiziaria principe sul territorio – era ad un tempo accusatore e giudicante delle sue imputazioni che elevava: non se ne lamentava nessuno (e funzionava). Il mondo è cambiato, i conflitti sono cresciuti, ciascuno aspira ad un sistema di garanzie più attendibile e le commistioni negli interessi sono di per sé sospette, perché la fiducia nelle istituzioni non è più scontata.
La difesa di ciò che è indifendibile – l’appartenenza allo stesso corpo e quindi allo stesso spirito di corpo – dell’accusatore e del giudicante, viola radicalmente le basi di un attendibile giudiziogiudiziale: perché crea ineffabili legami tra chi deve giudicare e chi indica una soluzione per il giudizio – l’Accusa – per di più in vantaggio del rappresentante dello ius puniendi in danno di chi fa valere lo ius libertatis, senza alcun dubbio il valore primario di ogni processo, perché attiene ai diritti fondamentali dell’individuo, del cittadino, in funzione dei quali esiste lo Stato (liberale) di diritto.
Evidente, direi, che la coriacea opposizione della Magistratura – nelle sue forme organizzate, in pratica nell’Anm – non ha una base legittima, è priva di base storica, perché tende a perpetuare un assetto organizzativo del tutto fuori tempo, foriero di molte disfunzioni e comunque – quel che certamente è più grave – in grado di screditare l’azione della giurisdizione, anche al di là dell’effettiva realtà delle cose.
C’è però dell’altro a giustificare questa difesa ad oltranza dell’attuale ordinamento giudiziario. C’è una sorta di sublimazione – di nobilitazione – di più bassi interessi, almeno per quel che mi pare di poter dire. Questa riforma ha potenzialità ben più dirompenti rispetto al sistema di potere che si è incistato all’interno della giurisdizione.
Col prevedere il sorteggio dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura – l’istituzione pubblica che governa i percorsi di carriera dei giudici e le corrispettive logiche del potere giudiziario (penale) – la nuova disciplina costituzionale è davvero in grado di stroncare le attuali gerarchie subdolamente annidatesi in circa un cinquantennio all’interno della giurisdizione.
Il Csm è divenuto una propaggine dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’organizzazione privata alla quale aderisce – volente o nolente – la gran parte dei giudici. Quel che si decide da parte delle correnti dell’Anm – non a caso definito il Parlamentino dei magistrati, proprio così! – si riproduce in termini istituzionali nelle decisioni del Consiglio Superiore, che assegna cariche e cadreghe trai colleghi: distribuisce il potere, quello stesso che, in forma di azioni penali (soprattutto) e di verdetti (molto meno) fa la storia del potere giudiziario in Italia e di molte vittime, le cui vite sono strapazzate, in quel lungo tempo che trascorre tra l’accusa e la sentenza.
Ecco, il sorteggio eliminerebbe gran parte delle radici di questo potere invisibile e troppo spesso deviato. Di qui la sublimazione: dietro gli alti lai per la perdita d’indipendenza che la separazione comporterebbe, c’è una cucina assai più bassa, quella della perdita di presa su giudici che potrebbero essere effettivamente indipendenti e che non lo sono pienamente in ragione dell’oppressione correntizia.
E se dopo oltre un trentennio di guerra civile scorrente tra le istituzioni dello Stato, questa riforma supererà il vaglio, non solo del Parlamento, ma anche del successivo referendum, beh sarà un merito non dappoco da ascrivere all’attuale dirigenza politica, perché avrà dimostrato d’esser capace d’affrontare con coraggio un nodo istituzionale il cui effetto paralizzante sarà compiutamente compreso solo tra tempo non poco.
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