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L'analisi

A volte basta un click per salvare una vita

Storie di chi non si deresponsabilizza e sente un problema altrui sulla propria pelle

A volte basta un click per salvare una vita

Frances Haugen non nasce attivista. Nel 2019 entra in Facebook come product manager. Il suo compito è analizzare gli algoritmi che decidono cosa vediamo ogni giorno sui nostri feed.

Nei documenti interni che studia c’è scritto nero su bianco che Instagram danneggia la salute mentale degli adolescenti. E che i contenuti più estremi, politici e sociali, vengono spinti dall’algoritmo perché generano più click.

Il conflitto è devastante: restare in silenzio per proteggere la sua carriera o denunciare il meccanismo tossico più potente del pianeta.

Frances copia migliaia di file interni e nel 2021 li porta al Congresso degli Stati Uniti. È la caduta libera: si espone, perde il lavoro, diventa “la whistleblower di Facebook”. Subisce attacchi, critiche, minacce. Ma non si ferma.

Grazie a quei documenti sappiamo che dietro i like non ci sono solo foto di meme divertenti e “gattini coccolosi”, ma un sistema che manipola le emozioni e divide le comunità. Le audizioni di Haugen a Washington hanno costretto governi e istituzioni a rivedere le regole delle piattaforme digitali.

E adesso andiamo a Chicago, dove è successo un episodio simile alla triste vicenda del nostro Paolo Mendico, il ragazzo di soli 14 anni che si è suicidato nella sua cameretta il giorno prima di tornare a scuola.

La notizia corre tra i corridoi: una ragazza poco più grande si è tolta la vita dopo mesi di insulti online.

Trisha Prabhu ha 13 anni, vive a Naperville nei sobborghi di Chicago, e quella storia non la lascia più. Non è un episodio isolato, è il segno di un veleno che intossica la sua generazione: il cyberbullismo.

Questa ragazzina di appena tredici anni prende su di sé il dramma che ha toccato anche la sua vita e prende atto che gli adulti non vedono e gli insegnanti non capiscono.

Le piattaforme fanno finta di niente. Trisha non sa programmare, non ha laboratori, non ha mentori. Ha solo un vecchio computer e la convinzione che si possa fare qualcosa. Decide che imparerà lei a parlare la lingua delle macchine.

Inizia da zero, con Java. Poi tutorial, manuali, notti infinite a provare e sbagliare. È la forza della determinazione di un adolescente – la dovremmo ricordare se scaviamo nei nostri ricordi. Forse loro ce la possono ancora insegnare, visto che per noi “i problemi sono troppo grandi” e scegliamo di deresponsabilizzarci e di guardare altrove.

Lei cade, si rialza, ricomincia. Non cerca like né applausi. Vuole trovare un modo per fermare il dito prima che prema “invia”. Ha già capito tutto. Dopo mesi nasce ReThink. Un’app che intercetta i messaggi offensivi e mostra un avviso: sei sicuro di voler ferire qualcuno? E funziona. Il 93% dei ragazzi decide di cancellare. Bastava un attimo di esitazione per salvare una vita.

Trisha porta ReThink alla Casa Bianca, convince giurie internazionali. Un’app scritta in Java in una cameretta diventa lo scudo di milioni di adolescenti. Ha fatto quello che le big tech non hanno voluto fare: mettere un freno al bullismo.

Queste due storie non sono la soluzione al problema. Sono molto di più. Sono il segno concreto che quando non ci si deresponsabilizza e si sente un problema altrui sulla propria pelle, si può fare molto.

E a volte basta un click per salvare una vita, come ne basta uno per toglierla.

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