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06 Ottobre 2025 - 08:00
La monarchia costituzionale e la Presidenza della Repubblica italiana hanno più di un elemento in comune. Entrambe incarnano un vertice istituzionale concepito per rappresentare l’unità nazionale e per garantire il rispetto delle leggi fondamentali, delle procedure democratiche e delle norme.
Non sono figure chiamate a contendersi il consenso politico quotidiano, ma, per definizione, sono sganciate dalle sue oscillazioni: il monarca, attraverso un’investitura vitalizia e non elettiva; il Presidente, grazie a un mandato lungo e non fondato sull’elezione diretta.
Già Polibio avvertiva come la democrazia possa degenerare in oclocrazia, il governo tumultuoso delle masse. In questa prospettiva, una figura di vertice con funzioni prevalentemente notarili e di garanzia – che sia il monarca costituzionale o il Presidente della Repubblica – rappresenta un argine contro tale involuzione.
Walter Bagehot, grande interprete della costituzione britannica, distingueva le dignified parts, destinate a suscitare rispetto e a rafforzare la coesione simbolica, dalle efficient parts, come Parlamento e Governo, incaricate del funzionamento concreto dello Stato. Una distinzione che ben si applica al nostro Presidente della Repubblica: un ruolo di garanzia, non di governo.
Non a caso i Padri costituenti, da Mortati a Calamandrei, pensarono al Presidente come garante super partes. Mortati ricordava che «il Presidente è garante dell’equilibrio costituzionale, non organo di indirizzo politico». Calamandrei lo descriveva come una «magistratura di influenza», capace di orientare senza governare. La dottrina successiva ha consolidato questa linea: Crisafulli lo definì «arbitro, non giocatore»; Zagrebelsky parlò di «potere neutro», tutt’altro che irrilevante.
Questa concezione non è un’anomalia italiana: anche in Germania e in Austria il Presidente federale ricopre un ruolo analogo, frutto della stessa esigenza dei sistemi parlamentari – affidare l’esecutivo a un Cancelliere o a un Primo Ministro con legittimazione politica forte, riservando al Capo dello Stato la custodia dell’integrità del sistema.
Qui sta il cuore della riflessione sulla modernizzazione dell’assetto costituzionale italiano. Un Paese fragile e diviso, con governi di breve durata, ha sempre avuto bisogno di un’ancora istituzionale. Il Presidente della Repubblica garantisce continuità e stabilità, fungendo da punto fermo quando l’esecutivo vacilla.
Se la priorità è rafforzare il governo, la strada non è l’elezione diretta del Capo dello Stato – che ne snaturerebbe la funzione super partes – ma un potenziamento del ruolo del premier. In molte democrazie europee il Primo Ministro non è più un semplice primus inter pares: può sostituire i ministri senza chiedere un nuovo voto di fiducia, assicurando coesione e forza all’azione di governo.
Così, una vera riforma dovrebbe mirare a rafforzare l’esecutivo senza intaccare l’essenziale ruolo di garanzia del Quirinale. Ridurre o annullare la Presidenza della Repubblica significherebbe rinunciare all’unico vero punto di equilibrio che ha assicurato, per decenni, l’unità di un Paese fragile e diviso.
In un’epoca di polarizzazione politica estrema, possiamo davvero permetterci di rinunciare a quell’ancora che da settant’anni garantisce la coesione e l’unità della Repubblica?
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