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la riflessione
06 Ottobre 2025 - 08:00
Lucetta Scaraffia
Si sa che sempre meno si parla di Università, e d’istruzione in generale, nelle ormai assai diversificate articolazioni dei media. A meno non si verifichi qualcosa d’eclatante, del tipo del docente picchiato, di quello che si dà ad inopportuni approcci erotici o, ancora, di occupazioni d’atenei per dimostrare su qualcosa che con gli atenei e la loro funzione nulla ha da fare.
Sicché è già una notizia in sé la denuncia di Lucetta Scaraffia, già impegnata docente di storia contemporanea alla Sapienza e nota editorialista, che ha deciso di dimettersi da componente della Commissione etica dell’Ateneo Ca’ Foscari di Venezia.
Quell’Ateneo ha deciso d’interrompere i suoi rapporti di collaborazione con Israele, ma non si è fermato lì. A anche vietato ai suoi docenti di avere relazioni individuali, a meno che essi che ‘non siano in grado di dimostrare di non appoggiare la politica del governo Netanyahu’.
Dunque, una forma di controllo delle opinioni, con tanto d’interna inquisizione sul pensiero del professore universitario. La Scaraffia ha voluto denunciare – sono sue parole – «l’abbandono dell’Università al conformismo politico, il cedimento a logiche di discriminazione che nulla hanno a che fare con la libertà accademica». Ed è difficile non darle ragione, almeno con riguardo a ciò che un tempo Accademia era.
Aprendo all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso un anno accademico in qualità di Rettore, il fondatore della scuola di Francoforte Max Horkheimer, indirizzava ai suoi studenti, pressappoco queste parole: «all’Università s’insegnano singole discipline, ma essa non vuole allevare lo specialista. Essa fornisce strumenti mediante i quali ci si può far strada nella vita attuale, e, in posizioni elevate nella società, si possono far avanzare altri».
L’insegnamento universitario è chiamato ad evitare rischi elevati: «anche studiando […] si può diventare più stupidi», aggiungeva, perché bisogna prevenire i pericoli seri legati al «progresso tecnico, che finisce col trasformare la parola in una funzione della macchina e l’uomo in una stazione ricevente».
Queste presaghe parole che possono oggi leggersi negli Studi di filosofia della società, configuravano gli Atenei, quali presidi del pensiero critico, quello che si oppone al conformismo, all’impero del presentismo, all’accettazione acritica di propagande e mode; un pensiero chiamato sempre a mediare le pulsioni meno controllate, attraverso mezzi di scrutinio che non si lascino travolgere dal momento e che si servano di categorie cognitive e di giudizio articolate, ricche, frutto di lunga sedimentazione.
Bene. Tutto questo, come illustra a mia opinione limpidamente la vicenda dell’Ateneo Ca’ Foscari, è del tutto svanito. Da almeno un quarantennio si è efficacemente lavorato per la demolizione della dimensione propria dell’Università. Un tempo era vanto del professore il fatto che egli non fosse tenuto a prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, al pari d’ogni altro dipendente dello Stato.
Era questa un’esenzione simbolica, stava lì a contrassegnare che dovere del docente – unico – fosse quello di perseguire le vie della conoscenza, la ricerca della possibile verità. Oggi credo che chi ‘prende servizio’ nemmeno sappia che non giura.
L’Università è stata trasformata in un enorme macchinario burocratico, nel quale non contano altro che meccanismi formali di misurazione e verifica delle ‘qualità’: ovviamente delle qualità che una burocrazia e non un luogo di scienza può produrre. Di conseguenza una massa infinita di adempimenti – è stato persino coniato il neologismo orripilante ‘adempimentale’ – ed i professori sonogiudicati in base alle loro prestazioni nel ‘gestionale’. F
accio un esempio concreto: poiché gli organismi accademici (dipartimenti, corsi di laurea, infinite commissioni di ‘misurazione’) hanno perduto qualsiasi senso e significato – per quel che io ne comprendo, nell’Università a decidere è nella sostanza il Rettore, in buon accordo con il Direttore Generale – si verifica ampio il fenomeno dell’assenteismo: ognuno, in fin dei conti, cerca di preservare il proprio tempo.
Ed allora, la reazione dell’elefante burocratico è stato in vari atenei quello di multare, sì, multare, chi non fa l’atto di presenza, di modo che, fondando sulla pressione dei già magri stipendi, si realizzano partecipazioni oceaniche (absitiniuria verbis). Quanto poi a queste corrisponda qualcosa di sostanziale, ognuno potrà da sé giudicare.
Ora, è chiaro che avere trasformato le Università in in feconde macchine burocratiche produce non scienziati, non studiosi seriamente avertiti del proprio compito e della propria responsabilità – che è anzitutto nel formare pensiero critico e preparati cittadini, ad un tempo intesi della propria responsabilità professionale e civile – ma produce appunto burocrazia, organizzazioni più o meno inconsapevoli, che hanno la funzione di conformare, di correggere qualsiasi deviazione, d’uniformare al volere degli apparati ogni condotta, individuale e collettiva.
E non a caso nell’Università sempre più prevale il pensiero unico, conformista, di apparato, appunto. Bene ha fatto la Scaraffia a dimettersi da un simile, indigesto contesto; del resto c’era poco da aspettarsi di diverso dal conformismo, dalla prevalenza di visioni illiberali e costrittive, dalla pretesa al pensiero unico e corretto, da imposizioni di valori ‘viruosi’ e che non ammettono repliche, dal lisciamento del populismo più maldestro, dall’indisponibilità al confronto serio e fondato sul solido stridere tra argomenti, verificabili solo in una strutturata dialettica che ponga e compari non solo slogan e vaghe parole, ma fatti analizzati in un ampio brulicare d’elementi ed in contesti non ritagliati ad hoc perché emergano solo gli scampoli della realtà funzionali alla verità che previamente si vuole sia.
Ma questo modo d’operare è il modo dei luoghi di scienza, quelli vagheggiati da Horkheimer, non delle gerarchie mentali propria di un contesto burocratico, dove viene impartito l’ordine ed esso non può discutersi ma soltanto eseguirsi. Tal tipo d’organizzazione è utile, indubbio, ma in altri luoghi della società, non dove si dovrebbe allevare il pensiero a formarsi criticamente ed esprimersi.
Su quel che è accaduto, non mi sembra si siano levati scudi di accademici flottiglianti, né si siano viste occupazioni studentesche: un’ottima prova che il lavoro d’omologazione è stato efficacemente portato a compimento.
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