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La riflessione

Quando il come saremo conta di più del come eravamo

Non si può pensare che i ragazzi di oggi abbiano già la carrozzeria completa nel momento in cui si mettono in strada

Quando il come saremo conta di più del come eravamo

Qualche giorno fa - non senza una cospicua (e per certi versi imprevedibile) quota di personale dolore e di altrettanta (ma assolutamente programmabile) gioia - la mia ultimogenita è partita per studiare medicina a Milano. La separazione è un argomento complesso e non disciplinato per legge quando a dividersi non sono due coniugi, ma un padre da un figlio o una figlia. L'impreparazione è l'attore principale della storia, pur a lieto fine, in quanto è l'amore a guidare sempre e comunque le parti in gioco, in quel continuo susseguirsi di congiungimenti e distacchi, ma col denominatore comune del vincolo indissolubile, dell'appartenersi senza condizionamenti, ripensamenti o tradimenti.

In un breve colloquio telefonico, succedaneo al meritevole "welcome day" indetto dalla sua nuova università, quella figlia passata in un istante (senza un quando né un perché) dalla dedizione assoluta dell'infanzia alla indipendenza incondizionata - e forse anche un po' beffarda - della giovinezza, mi ha comunicato che avrebbe dovuto scegliere, sin dal primo giorno di lezioni, quale sarebbe stato il suo indirizzo unico e sempiterno (limitatamente al tempo universitario) tra tre opzioni: clinica, chirurgia e ricerca. Ferma restando la preferenza, quasi implicita per natura umana e rigorosa tradizione famigliare, per il meraviglioso versante clinico del percorso di studi in medicina, mi è piaciuta la motivazione adottata: niente da fare per la chirurgia, dove ci vogliono inclinazione e manualità che non sembrano appartenerle, ma neanche la scelta aprioristica per la ricerca pura che, a meno di colpi di fulmine dell'ultimo momento, è - a suo dire - "perfetta dentro un percorso clinico strutturato e completo", potendone solo accrescere (e questo lo dico io) consapevolezza e passione.

Insomma, idee chiare più di quanto ne avessi io alla fine dei miei sei anni di università. Eppure c'è un ma, che potrebbe pesare come un macigno sulle preferenze future di questi dottori in erba. Per quanto raffinatamente accessoriati non si può pensare che i ragazzi di oggi abbiano già la carrozzeria completa nel momento in cui si mettono in strada - anche se loro fanno di tutto per pensarlo e a volte perfino esserlo. Uno spunto in tal senso me l'ha dato una recentissima intervista a uno dei premil Nobel per la medicina assegnati lunedì scorso a Stoccolma, il giapponese Shimon Sakaguchi, nella quale domina un passaggio che riguarda proprio l'argomento qui trattato. Ha affermato il 74enne ricercatore di Kioto: "Volevo diventare un medico, ma mi sono accorto di non avere abbastanza capacità di comunicazione, con i pazienti e con le persone in generale. Ho provato con la professione di patologo, che consiste nel formulare diagnosi stando chiusi in un laboratorio, ma ho trovato questo lavoro piuttosto noioso. Ho iniziato allora a lavorare per provare a capire le cause delle malattie, cioè a fare ricerca. Le prime piccole scoperte che ho fatto mi hanno spinto ad andare sempre a caccia della risposta successiva. Era diventata come una dipendenza, un gioco dal quale non riuscivo più a uscire”.

Senza "prove", appunto, non si riconosce quello che si accende e quello che rimane spento dentro di noi. Mi sa che dovrebbero ricordarlo anche coloro che formano donne e uomini prima che dottoresse e dottori. In questo caso il come saremo conta di gran lunga di più del come eravamo.

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