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18 Ottobre 2025 - 10:05
Esistono quasi cinquecento disposizioni di legge che presuppongono di fatto l'attività di rappresentanza di interessi presso il decisore pubblico, disseminate qua e là nell’ordinamento, ma non v’è una disciplina organica che regoli l'accesso al decisore, la trasparenza del processo di influenza, i potenziali conflitti di interesse del decisore.
Insomma, l'Italia è tra i pochi Paesi democratici priva di una normazione generale sul fenomeno del lobbying, cioè della rappresentazione di interessi particolari verso Parlamento, governo e funzionari pubblici, con lo scopo di influenzarne le decisioni nell'interesse dei propri clienti, siano essi il fondo per la conservazione delle foche monache, una grande impresa energetica, bancaria o di armamenti, oppure l’associazione di categoria dei produttori di mobili o di sigari.
Perché l'Italia rappresenta un unicum nel mondo occidentale?
Gli interessi particolari esistono e si relazionano, vivaddio, con il decisore pubblico, il quale, non essendo onnisciente, ha bisogno di sapere quali siano gli effetti potenziali delle sue scelte e trarre poi sintesi e decisione autonoma.
Non sarebbe pertanto meglio regolare pubblicamente il rapporto tra interessi organizzati e decisori, in modo che esso si esplichi in maniera chiara e trasparente?
La storia italiana è fondata sull'ipocrisia, sulla finzione che il legislatore debba essere impermeabile alle influenze esterne e decidere in una turris eburnea in cui la scienza infusa lo illumini.
Questa ipocrisia ha tre radici di fondo: l'idea costituzionalista francese giacobina, la partitocrazia, e l'etica cattolica e comunista.
Per la filosofia giacobina, la legge è espressione della volontà generale; la volontà generale risiede nell'aula parlamentare, i cui eletti sono espressione del corpo elettorale.
Gli eletti, nell'esercizio del mandato, devono tradurre in norma la volontà generale senza lasciarsi “contaminare” dal confronto con gli interessi particolari organizzati. È dichiaratamente una fictio filosofico-normativa, a cui fior di costituzionalisti hanno aderito, sorretti dalla convinzione dell’impermeabilità di ogni confronto esterno all’aula parlamentare, unico luogo in cui si esprimerebbe la sovranità popolare.
Una convinzione esattamente rovesciata nel mondo anglosassone, dove invece la volontà generale è vista come la risultante di una negoziazione fra interessi particolari. Questo rapporto, il confronto tra legislatore e interessi organizzati, è non solo auspicato, ma obbligatorio e regolato in tutte le sue fasi.
La partitocrazia, per usare un’espressione cara a Marco Pannella, ha dato un ulteriore contributo alla ritrosia del legislatore nel normare l’attività di lobbying. I partiti infatti, sovrani per mezzo secolo nel nostro Paese e organizzati per disciplinare dalla culla alla tomba la vita dei cittadini, esercitavano una funzione egemonica e totalizzante, che presupponeva che confronto, conflitto e sintesi tra l’idea di società espressa dal partito e gli interessi vivi nel tessuto economico dovessero avvenire all’interno del partito stesso.
I gruppi parlamentari eseguivano decisioni già prese dopo l’elaborazione interna. Insomma, nei partiti, dentro quelle stanze, avveniva la negoziazione e la sintesi con gli interessi particolari, e la decisione politica si esplicava nelle istituzioni, senza bisogno che il rapporto tra decisore e rappresentanti di interessi fosse normato pubblicamente. Persino i corpi intermedi, di cui non si poteva fare a meno, erano per lo più cinghie di trasmissione dei partiti, la loro longa manus.
Il terzo contributo negativo alla mancata normazione organica del lobbying viene da una cultura a lungo prevalente in Italia: quella cattocomunista, diffidente rispetto all’esercizio dell’intrapresa privata. Non è necessario spendere troppe parole: la considerazione del denaro come “sterco del diavolo” e come strumento di oppressione delle masse non ha mai consentito di guardare con serenità all’attività economica privata.
Si potevano magari compiere le peggiori malefatte nel retrobottega, ma legittimare un confronto pubblico e trasparente tra decisori pubblici e interessi organizzati non era possibile, perché avrebbe significato codificare l’influenza dell’economia sulle scelte pubbliche.
Il mondo, e l’Italia non ne è immune, è molto cambiato da allora.
La finzione giacobina e la morale cattocomunista non reggono più, e la partitocrazia è crollata sotto le proprie macerie.
È tempo di disciplinare anche in Italia l’attività di lobbying. Più il processo di confronto tra gli interessi vivi della società e il decisore pubblico sarà trasparente e regolato, più ne gioverà la qualità della nostra democrazia.
Un registro pubblico renderebbe chiaro chi sono i lobbisti, per conto di chi operano e quali interessi rappresentano.
Un accesso regolamentato definirebbe le modalità di contatto (es. obbligo di registrare incontri, cooling-off periods per ex funzionari).
La trasparenza del processo negoziale renderebbe pubblico il processo di influenza e il contenuto delle proposte portate dai rappresentanti di interesse.
In conclusione, regolare il lobbying non significa spalancare le porte alla corruzione, ma chiuderle: significa portare alla luce del sole dinamiche inevitabili e necessarie, sottraendole all’opacità e rafforzando così, non indebolendo, le istituzioni democratiche.
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