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Tutti gli occhi su Kiev, ma intanto a Pechino…

Il Consiglio europeo a Bruxelles ha aperto ieri il sipario presentando il diciannovesimo “pacchetto di sanzioni" contro la Russia

Tutti gli occhi su Kiev, ma intanto a Pechino…

Donald Trump e Ursula von der Leyen

Il Consiglio europeo a Bruxelles ha aperto ieri il sipario presentando il diciannovesimo ‘pacchetto di sanzioni’ contro la Russia e prospettando l’utilizzo di 140 miliardi di euro (degli oltre 200 depositati su una banca nella capitale belga) per rifornire di armi il regime di Kiev e porre le basi della futura ricostruzione dell’Ucraina, cui tutti i Paesi occidentali ambiscono a partecipare.

Contemporaneamente anche a Washington venivano annunciate sanzioni dirette a frenare l’esportazione di energia russa, che alimenta lo sforzo militare e sorregge l’equilibrio economico e sociale della Federazione.

Sempre nelle stesse ore, Mosca procedeva a esercitazioni con armi nucleari strategiche, cioè missili a raggio intercontinentale, quasi a ricordare che - a dispetto di forze convenzionali rivelatesi in Ucraina di modeste capacità -- le 5mila e più testate a diposizione ne fanno la massima superpotenza atomica.

Nello stesso tempo, in Israele i fondamentalisti ortodossi del governo – quasi a dispetto delle visite di vicepresidente, ministro degli Esteri e inviati speciali americani – puntavano ad allargare i propri confini alla Giudea, ovvero alla Cisgiordania dell’eterno presidente Abu Mazen, e quindi a ipotizzare di spedire i palestinesi un po’ verso il Vecchio Continente, il grosso verso i Paesi arabi “fratelli”, che però non li vogliono.

In sintesi, le prime valutazioni. Rimandato il vertice di Budapest tra Donald Trump e Vladimir Putin ma continuano le trattative.

Mosca, dopo promesse e accordi che l’Occidente ha disatteso portando la Nato alle sue frontiere, vuole un trattato di pace formale o almeno una tregua che però registri, nero su bianco, gli impegni precedentemente concordati dalle parti in conflitto e la rassicuri sulla neutralità futura dell’Ucraina.

Summit sì, ma per sancire intese e non per avviarle semplicemente. Sempre più convinta, Mosca, che i maggiori Paesi dell’Unione europea siano impegnati a boicottare – anche per motivi di riconversione industriale - gli sforzi russo-americani diretti a porre fine al conflitto.

Accettare, tuttavia, di far partire le trattative da un cessate il fuoco sulla linea attuale del fronte premierebbe il pragmatismo di Washington e dimostrerebbe quanto sincero e quanto invece strumentale sia la convergenza degli alleati europei al piano di Trump. Pace o tregua dai caratteri ‘coreani’ cambia poco, le armi tacciono. Putin rischia di compiere un secondo errore, dopo il maldestro tentativo iniziale d’invasione.

I maggiori Paesi Ue non si fidano della Casa Bianca, tantomeno del Cremlino. Inoltre, attraverso un riarmo in buona parte ‘made in Usa’, presumono (Germania in testa) di poter sia restringere lo spettro dei dazi sia attenuare la crisi dell’automotive. Insomma, nervi saldi, l’altalena tra illusioni e delusioni continua.

Tutto questo mentre a Pechino, parecchio sottovalutato dai media, calava il sipario sul quarto Plenum del ventesimo Comitato centrale con lo scontato assenso al Piano quinquennale di programmazione socioeconomica, predisposto dal Politburo del Partito comunista cinese.

Il Piano verrà sottoposto tra cinque mesi all’esame dell’Assemblea nazionale del popolo su cui veglierà lo sguardo – benevolo per pochi, severo per molti, inquietante per tutti - del leader Xi Jinping. Eotterrà certamente la totale approvazione. L’obiettivo è fare della Cina la prima potenza economica del pianeta entro la fine di questo decennio.

La crescita del Pil nazionale ha viaggiato al ritmo del 5,4% ma seppure diminuisse al 4,5% permetterebbe di raggiungere entro il 2035 il raddoppio dell’attuale pil pro-capite, portandolo a 27mila dollari. Chi vivrà, vedrà.

Resta che il risparmio (‘imposto’ dalla tradizione e da un’assistenza sociale a dir poco insufficiente) non fa crescere i consumi interni; che la globalizzazione che favoriva la Cina non è più accettata dagli Stati Uniti; che la corruzione, combattuta duramente da Xi, ha prodotto danni gravi; come anche la scandalosa crisi dell’immobiliare; che al centellinamento delle ‘terre rare’ corrispondono ora i dazi Usa sui semiconduttori d’altissima gamma; che il riarmo che s’accompagna all’espansionismo geo-economico nutre diffidenze e timori… e via elencando.

Pechino, però, si è impadronita delle leve dell’industria tecnologicamente avanzata, quella del futuro, ed ha aperto la borsa e spalancato le porte di università e centri di ricerca agli scienziati del mondo. L’alleanza obbligata che offre la Russia assicura energia a metà prezzo per la sua immensa manifattura.

Se la globalizzazione non promette più facili ’miracoli’, le esportazioni cinesi invadono vieppiù il pianeta: dall’Asia al Sud America, dall’Africa alla stessa Europa. La Germania quest’anno ha aumentato sensibilmente le importazioni e visto precipitare le esportazioni verso il Celeste Impero…

Insomma, la seconda economia del mondo resta all’offensiva. E non solo: nel Continente nero aumentano i Paesi desiderosi di convertire il debito estero in dollari con i renminbi (yuan) con tassi dimezzati. Dall’Etiopia alla Nigeria, dal Sud Africa allo Zambia, dal Niger allo stesso Egitto cresce la tentazione di imitare il Kenya… Avranno molto da dirsi, Trump e Xi, al summit di Seul. 

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