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L’ANALISI
27 Ottobre 2025 - 08:47
Marcello Dell'Utri
È dell’altro giorno la notizia che la Corte di cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Procura Generale di Palermo contro la Corte d’appello della città, la quale a sua volta aveva respinto l’impugnazione della Procura locale avverso la decisione del Tribunale panormita: girandola d’impugnazioni, tutte uniformemente ritenute infondate, con le quali i titolari dell’accusa in quel della Conca d’ora intendevano ottenere la sottoposizione a sorveglianza speciale e poi anche la confisca di beni dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, sul presupposto fantasioso, e tale ritenuto – per tre volte – dai giudici, che si sarebbe trattato di risorse donategli dal suo mentore Silvio Berlusconi, grazie a proventi risultanti dal riciclaggio di danaro della criminalità organizzata.
Insomma, un altro tassello di quel teorema, mai approdato ad una qualche credibile dimostrazione, secondo la quale tra il magnate milanese e le organizzazioni mafiose siciliane intercorressero fecondi rapporti d’affari, dei quali in vario modo il suo amico siciliano Dell’Utri fosse garante ed intermediario.
Nel respingere le richieste della Procura, i giudici di Palermo avevano affermato – ed ora con il rigetto della Corte di cassazione le pronunce possono dirsi definitive in ordine alla richieste misure patrimoniali – che mai è stato provato in alcuna delle molteplici sedi giudiziarie che un po’ in giro per l’Italia si sono occupate del tema sollecitate da varie Procure, vi sia stata alcuna attività di riciclaggio nelle imprese dell’imprenditore lombardo; né tanto meno ha avuto dimostrazione l’assunto che le ingenti somme di danaro donate dall’imprenditore al suo amico d’una vita fossero dovute a qualcosa di diverso dall’amicizia appunto, e dal senso di solidarietà, particolarmente spiccato com’è noto in Berlusconi, che le motivava in ragione delle peripezie giudiziarie che il primo aveva dovuto attraversare per varie ragioni legate ai suoi rapporticon lo stesso Berlusconi.
Insomma, uniformi decisioni hanno per tre volte escluso quello per cui ancora circolano indagini, riaffioranti di tanto in tanto: particolarmente suggestive sono le vicende dei modelli 45 e 21 che si alternano in quel della Procuradi Firenze, che ancora sospetta Berlusconi e Dell’Utri, quali mandanti delle stragi del 1992-1993 e che di tanto in tanto riesuma quelle tesi, tendendo sulla graticola, non più il magnate milanese, ché non è possibile in quanto ormai scomparso, ma il secondo, sottoposto da circa trent’anni alla tormentosa condizione dell’indagato.
Si potrebbe da questa vicenda argomentare che la separazione delle carriere non sia un vero problema, dato che i giudici sono in grado di rintuzzare, anche con decisione, le ideazioni di chi indaga. E non c’è dubbio che la cosa talora accada e che, soprattutto nel tempo, i titolari della giurisdizione sappiano respingere le richieste dei titolari dell’accusa.
Ma il problema non è in questo. Il problema è che questo non accada quasi mai con tempestività e che per venire fuori dalla condizione di perseguito, non di rado non sia sufficiente una vita; e comunque, quel che resta della vita dopo decenni di indagini e processi, è ben grama cosa.
L’appartenenza dei titolari della pubblica accusa alla medesima carriera dei giudici conferisce loro una credibilità, anche sociale, di tanta influenza da far sì che le loro asserzioni godano di una sorta di presunzione di legittimità o, se si preferisce, di credibilità, che le rende difficilmente scalfibili innanzi ai giudici, al punto che, com’è notizia di questi giorni, la stessa Corte di cassazione ha affermato il principio che i consulenti di cui si servono i pubblici ministeri nei processi per provare le loro accuse devono godere di un’attendibilità maggiore di quella dei consulenti di cui si servono gli imputati per smontarle: appalesandosi così quel capovolgimento di presunzioni voluto dal legislatore – l’unica presunzione è quella d’innocenza e la regola cardine è la condanna solo al di là d’ogni ragionevole dubbio – che ha la sua vera base nel fatto che il pubblico ministero condivide con i giudici formazione e carriera, sicché è ineliminabile dalla forma mentis dei secondi una certa inclinazione a creder loro ed a valutare con pregiudiziale riguardo quanto da essi asserito.
La necessità di tenere distinte le carriere deriva anche da ciò, ma non solo. Quando un cittadino è sottoposto all’accusa da parte di una Procura, soprattutto se si tratta di una categoria di cittadini per la quale l’apertura di un’indagine costituisca un trauma reputazionale grave, il fatto che i pubblici ministeri siano considerati dalla gran massa delle persone – e non del tutto a torto, stando all’attuale assetto organizzativo – dei giudici, comporta un aggravio di credibilità di quanto viene contestato, che produce conseguenze pregiudizievoli in chi questa esperienza deve attraversare.
E la stessa vicenda da cui abbiamo preso l’avvio ne è comprovata manifestazione. Un plesso di decisioni tutte uniformemente neganti l’assunto assai poco credibile del coinvolgimento dei due in rapporti d’affari con la criminalità organizzata ha avuto una diffusione davvero scarsa, nonostante la radicalità dei contenuti motivazionali con i quali le pretese della Procura sono state rigettate. Mentre si dà nuovamente voce ad un vecchio dormiente fascicolo presso la Procura di Caltanissetta, in cui continuano a rimestarsi le consuete illazioni sui pretesi rapporti.
È chiaro che un Pubblico ministero che si confonde col giudice, non solo si ammanta di garanzie che non competono a chi deve azionare l’accusa – e che la stessa Costituzione vigente non attribuisce a lui (articolo 107), rimettendo piuttosto alla legge di regolarne lo status distintamente; ma soprattutto gode di una credibilità che dovrebbe essere estranea all’accusatore e che spesso, come documenta anche quest’ultima vicenda, non merita affatto.
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