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Anche Il “palestinismo” nel teatro delle virtù progressiste

Un modo per sentirsi eroi della giustizia senza mai sporcarsi le mani o rinunciare a una virgola dei propri comfort.

Anche Il “palestinismo” nel teatro delle virtù progressiste

Nel panorama dell’attivismo di piazza nostrano relativo alla crociata “propal” merge chiaramente un connotato che meriterebbe uno studio antropologico dedicato. I protagonisti? Ragazzi italianissimi.

Molti sono figli o parenti di quei giovani studenti che arrivarono in Italia negli anni Sessanta-Ottanta con borse di studio e che poi si sono perfettamente inseriti con successo nel mondo delle professioni. Frequentano circoli politici e culturali e nuotano beati nel brodo progressista che li ha costantemente nutriti.

Appartengono a quella borghesia intellettuale di sinistra che non ha mai conosciuto una vera privazione, eppure si atteggia a discendente diretta degli oppressi della terra. Cresciuti con ogni garanzia sociale, amano però dipingersi come eredi di un tormento collettivo che non hanno mai sfiorato se non nelle vulgate del politicamente corretto. Rivendicano cicatrici mai patite, battaglie mai combattute.

La loro lotta all’oppressione è di seconda mano, ereditata non dalla Storia ma dalle proprie convinzioni: rivoluzionari immaginari che giocano a fare gli insorti godendo della sicurezza dei loro privilegi e che amano considerarsi in lottacontro quel disagio altrui che però conoscono poco e male. Sono sedicenti esperti di un conflitto che non li ha mai sfiorati e di cui, nella stragrande maggioranza dei casi, ignorano genesi e struttura.

Al loro fianco, puntuale come un cliché, la solita fauna della sinistra protestataria di sempre: ragazzi di buona famiglia in preda a furori rivoluzionari intercambiabili che del conflitto arabo-israeliano sanno quanto un bambino di prima elementare sa di fisica quantistica.

Si muovono per riflessi pavloviani: basta uno slogan, una parola d'ordine e si scatena il teatrino dell'indignazione prefabbricata. Predicano rivoluzioni “dal fiume al mare” e si schierano in un conflitto che vedono solo in filigrana, mai nella stoffa ruvida della realtà.

Nelle loro assemblee, il giovane con il cognome vagamente arabeggiante ottiene automaticamente il diritto di tribuna. La nigeriana con un passato di schiavitù sessuale? Il ragazzo africano o siriano fuggito dalle violenze dell’integralismo islamico?Quelli restano fuori. Troppo autentici, troppo disturbanti, troppo miserabili per una rivoluzione che è soprattutto questione di stile.

La sofferenza vera puzza, quella vera sporca. Meglio l'esotismo dosato, l'oppressione “à la carte”. Il “palestinismo” italiano è essenzialmente questo: un narcisismo di classe mascherato da internazionalismo, un modo per sentirsi eroi della giustizia senza mai sporcarsi le mani o rinunciare a una virgola dei propri comfort.

Una protesta semplicistica e a senso unico portata avanti con supponenza intellettuale permanente e continuata e che rimane quella che è: il vezzo di gente che può permettersi di non fare pace neanche con se stessa e che ha scambiato la politica e i drammi del mondo per qualcos’altro, con narcisistica superficialità e tanto egoistico compiacimento.

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