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Trump-Xi: è tregua. E ora tocca all’Ucraina

L’ombra di Vladimir Putin s’è materializzata sul vertice prendendo forma nell’annuncio di un duplice test, spaziale e sottomarino

Trump-Xi: è tregua. E ora tocca all’Ucraina

Donald Trump e Xi Jinping

Il summit tra Donald Trump e Xi Jinping in Corea del Sud sancisce una tregua nella sfida tra Stati Uniti e Cina con una serie di compromessi che soddisfano entrambe le parti e di premesse per future possibili intese.

La verifica in un nuovo vertice, in aprile a Pechino. Poco più di un’oretta e mezza di colloqui per formalizzare agli occhi del mondo quanto le rispettive diplomazie avevano concordato e persino preannunciato. Semiconduttori e Terre rare, dazi ridotti e soia, Tik Tok e Fentanyl e via elencando, incluso l’impegno di Pechino a collaborare per indurre la Russia a sedersi al tavolo delle trattative per porre fine al conflitto in Ucraina.

L’ombra di Vladimir Putin s’è materializzata sul vertice prendendo forma nell’annuncio di un duplice test, spaziale e sottomarino: del missile a propulsione nucleare Burevestnik, cioè Procellaria – dal nome, non a caso, dell’uccello oceanico delle tempeste - e del “drone sottomarino Poseidon, che per velocità e profondità non ha eguali al mondo, entrambi non intercettabili”.

A rammentare il ruolo di superpotenza atomica della Federazione russa e della volontà di Mosca di salvare l’impero – già territorialmente ridimensionato, prima con Vladimir Ilic Lenin e poi con Mikhail Gorbaciov -- dallo smembramento ambìto dall’Occidente (e forse valutato e contemplato dalla stessa Cina).

Non a caso, mentre il capo della Casa Bianca incontrava la prima donna premier giapponese, Sanae Takaichi, e s’apprestava a dirigersi verso la Corea del Sud, il presidente russo riceveva al Cremlino un’altra donna, anch’ella di notevole spessore culturale e politico: il ministro degli Esteri della Corea del Nord, Choe Sonhui, super-esperta di programmi nucleari, negoziati internazionali e rapporti con gli Stati Uniti.

A contorno solidale, Kim Jong-un dava il via a due test atomici su vettori a medio raggio. Il summit, insomma, non s’è limitato a sancire i compromessi raggiunti sul piano economico e, relativamente ad alcuni teatri regionali, su quello strategico. Promette pure che la partita planetaria a tre – Usa, Cina e Russia - segnerà i prossimi dieci anni almeno di questo secolo.

L’interesse, infatti, già si sposta sul conflitto in Ucraina, dove il regime di Viktor Zelensky s’è piegato – sotto il peso di centinaia di migliaia di vittime – a un negoziato che si sviluppi da un cessate il fuoco sull’attuale linea del fronte. Il pre-riconoscimento, né più e né meno, dell’acquisizione da parte di Mosca di buona parte delle regioni russofone.

Un recupero parziale -- Crimea compresa, Odessa esclusa - di territorio storico della Russia. Le cause maggiori della guerra sono racchiusi in due impegni disattesi: l’avanzata della Nato verso i confini della Russia e la ventilata disponibilità di Kiev a rinunciare alla neutralità.

La mente va al golpe contro il presidente Viktor Yanukovich, alla repressione nel Donbass, agli accordi disattesi (Minsk) o interrotti (Istanbul), al rifiuto di piani di pace (clamoroso il no, dopo il sì, a quello di Naftali Bennett). Significativo che l’altro giorno.

Il ministro degli Esteri, Serghei Lavrov, abbia ribadito che Mosca è pronta a mettere nero su bianco di non avere intenzioni ostili verso Paesi europei, peraltro aderenti all’Alleanza Atlantica, e ribadito la richiesta a Kiev di riaffermare formalmente la neutralità.

Il riarmo della Cina, che s’accompagna all’espansionismo commerciale e strategico, accresce i timori nell’intero Indo-Pacifico: dall’India all’intera area dell’ex Indocina francese, dall’Australia alle Filippine, dal Giappone alla Corea del Sud. E nutre le (tacite) diffidenze della stessa Corea del Nord, che rinsalda i legami militari con la Russia persino con l’invio invio di suoi soldati al fronte in Ucraina.

Il bilancio della missione di Trump in Asia è potenzialmente ricco sotto il profilo sia geo-economico, sia geo-politico. Di là dalle intese con Pechino, favorite dal silenzio su Taiwan, c’è parecchio altro.

Ha raccolto la disponibilità a un riarmo (sul mercato Usa) che assicurerà guadagni da sommare ai risparmi; ha sollecitato il Giappone a liberarsi dalle maglie pacifiste di una costituzione figlia della sconfitta e ad una più forte collaborazione nella Difesa; ha ottenuto promesse di investimenti – industrie, infrastrutture, tecnologia del futuro - segnatamente da giapponesi e sudcoreani, per circa un migliaio di miliardi di dollari; ha fugato i timori di un neo-isolazionismo degli Stati Uniti, rinsaldato alleanze e attirato speranze di sicurezza in molte capitali dell’Indo-Pacifico; ha rilanciato il ruolo dell’America quale perno di stabilità per la sua funzione di ‘containment’ del Celeste Impero.

E ha reagito ai test missilistici della Russia ordinando la “ripresa immediata” dei test negli Stati Uniti: un mònito a Putin affinché si mostri più pragmatico e disponibile al negoziato. Il riarmo del Giappone riflette in Asia quello degli alleati nel Vecchio Continente.

Ma giustificato, quest’ultimo, da una assurda preoccupazione d’invasione russa, quand’è invece dettato da motivazioni economiche e commerciali: il traguardo del 5% del Pil destinato alla Nato, crisi dell’automotive, dazi americani, dumping cinese e il sostegno onerosissimo al regime di Kiev per una guerra che ha gettato la Russia nelle braccia della Cina.

Il futuro più o meno prossimo ci dirà se la sfida globale tra le superpotenze avrà o meno fughe destabilizzanti e pericolose per la pace nel mondo, se resisterà alle tentazioni dell’egemonia e alle onde sismiche di un equilibrio internazionale vieppiù multipolare per la crescita di ambiziose potenze regionali.

Per ora sappiamo che il potere centrale nel millenario Celeste Impero si mostra solido: abile nel tenere a freno l’insoddisfazione sia dei giovani (studi e apprendistato molto severi ma altissima disoccupazione, al 20%), sia della forza lavoro soggetta a eccessivo sfruttamento; capace di ‘depurarsi’ periodicamente dalla corruzione nell’apparato statale e nelle leve dell’economia attraverso purghe, carcere ed esecuzioni; in grado di assicurarsi il ‘controllo e comando’ attraverso periodici regolamenti di conti all’interno del partito e delle forze armate e ricorrendo alla dura repressione del dissenso.

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