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L'analisi

Giustizia o potere giudiziario: il confine si è fatto sottile

La riforma cerca di restituire alla giurisdizione quella dignità che ha perduto per il perseguimento di un ruolo politico ed in pretesa moralizzatore, che non le compete per nulla

Giustizia o potere giudiziario: il confine si è fatto sottile

«Le toghe avviano la battaglia e dettano la linea di comunicazione». Così il catenaccio di un articolo a pagina due de LaRepubblica di sabato scorso ha sintetizzato l’esordio della campagna referendaria dell’Anm, finalizzata all’abrogazione della riforma costituzionale testé approvata in quarta lettura dal Senato della Repubblica.

E in quei distinguo cavillosi che a malapena reggono ancor oggi nell’argomentare giuridico, ma che in quello politico lasciano increduli per l’ingenuità che li connota, subito dopo riferiva la posizione ufficiale della sunnominata associazione delle toghe: «vogliamo fare la battaglia per il No parlando con chiarezza a chi andrà a votare dei rischi che corre il sistema. Ma senza fare la guerra al governo».

Se queste non sono parole della pura tenzone politica, non so cos’altro potrebbero essere. Esse annunciano la costituzione del ‘Comitato per il no’, vale a dire il soggetto politico che dovrà coordinare la competizione referendaria per impedire alla principale proposta politica dell’attuale maggioranza parlamentare d’entrare in vigore, correggendo così un equilibrio, evidentemente politico, che ha posto al centro delle dinamiche democratiche la funzione giudiziaria.

Un equilibrio politico, però, nascosto dietro forme giuridiche sostanzialmente reazionarie, perché finalizzate a svolgere un’azione di trasformazione del sistema politico, condotta senza assumerne la responsabilità democratica. Ancora oggi, nel mentre si costituisce il ‘Comitato per il no’ – soggetto squisitamente politico – si dice di volerlo fare senza combattere il ‘Governo’, provandosi in tal modo a confinare in quest’ultimo la materia politica, per lasciare libere mani alla battaglia antireferendaria, come se quest’ultima non fosse a sua volta una tipica azione politica.

Insomma, operazioni di mascheramento della realtà: la Magistratura in Italia ha assunto una funzione ed occupato spazio nel campo sociale propriamente politici, senza però volerne al contempo prenderne la responsabilità. Ad essa fa gioco l’apparire un agente della neutralità giuridica, una neutralità che già di per sé in purezza non può esistere; ma che in Italia è ormai divenuta un insostenibile rivestimento di strategie guidate da intenti di potere e del potere più difficile da controllare, perché coperto dai formalismi giuridici, a loro volta tenimento tendenzialmente monopolistico della giurisdizione.

Cosa ha fatto questa riforma? Ha preso atto che nell’ordine giudiziario è dilagata una mentalità che è quella propria dell’agone partitico: tengo a precisare, partitico, non politico, e del più vieto cencellismo. Per chiarire, dato che oggi non si ricorda più quel che accadeva l’altrieri: il sostantivo viene dall’un tempo ben noto ‘Manuale Cencelli’, redatto da un funzionario della Democrazia Cristiana per ripartire il potere sottogovernativo tra le varie componenti del partito di maggioranza relativa, che s’identificava a sua volta con lo Stato.

In questo caso, le correnti dell’Anm distribuiscono attraverso il pedissequo Consiglio Superiore della Magistratura le posizioni di potere interne all’organizzazione giudiziaria, che s’identifica, agli occhi dell’Associazione dei giudici, con le proprie interne anime. Non molto diversamente dalla veneranda Dc.

Solo che quest’ultima era entità dichiarata della politica, mentre la Magistratura avrebbe tutt’altra funzione e, soprattutto, non si sottopone all’elettorato nel suo agire quotidiano, proprio per la ragione della sua pretesa neutralità.

Di questo, il Parlamento ha dovuto necessariamente prendere atto, dopo un’infinità di deviazioni emerse, vuoi nell’uso distorto delle indagini, attraverso le quali, enfatizzando od occultando universali debolezze umane, s’indirizzano, o si cerca d’indirizzare, assetti politici; vuoi attraverso quell’autentico vaso di Pandora che è stato il caso Palamara, mediante il quale è venuto fuori un autentico mercato delle cariche di vertice della Magistratura e che, solo grazie al fatto che è stato gestito, sia sul piano delle indagini, sia su quello dell’esercizio del potere disciplinare, da magistrati ben interni al sistema, ha potuto limitare i danni a pochi capri espiatori.

Del resto, se un sistema è tale, si chiama così proprio perché è costituito di una rete di rapporti, ciascuno dei quali influenza l’altro e tutti insieme fanno le regole del suo funzionamento. Sicché, nessuno dei suoi elementi se ne può chiamare del tutto fuori.

Dunque, la riforma ha fatto tre cose, correlate: ha cercato di eliminare lo ‘spirito di corpo’ che accomuna giudicanti e requirenti; ha cercato di sottrarre al correntismo la composizione del Csm, stabilendo che in quel consesso s’arrivi grazie ad un ponderato sorteggio: e questo è per l’attuale sistema di potere giudiziario, il colpo davvero in grado di scardinarne le logiche; ed ha stabilito, infine, che non sia più esso il centro degli scambi interni alla magistratura, il luogo in cui si giudichino le responsabilità dei giudici, evitando che questi ultimi si sentano praticamente liberi di fare quanto desiderano, perché certi di poter confidare della ‘comprensione’, pronti a sottrarli da appropriate sanzioni.

Ad oggi sono anche liberi di farsi beffe del ministro della Giustizia, che avrebbe su di loro il potere d’avviare l’azione disciplinare, ma che spesso non l’avvia, conscio degli esiti innanzi alla Sezione competente del Csm.

In sostanza, la riforma cerca di restituire alla giurisdizione quella dignità che ha perduto per il perseguimento di un ruolo politico ed in pretesa moralizzatore, che non le compete per nulla: ha cercato di riportare la giurisdizione ai suoi intangibili spazi. La riforma ha cioè svolto un ruolo politico, quel che compete al Parlamento.

Vedremo come andrà a finire, ma se la riforma venisse spazzata via, i tempi sarebbero ancor più tristi, perché vorrebbe dire il riconoscimento del ruolo politico dei giudici: ed allora non ci sarebbe che da farlo venire pienamente in chiaro, allineandoli alla funzione politica: attraverso la loro elezione, il che potrebbe anche essere un qualcosa di positivo: quel che si chiama eterogenesi dei fini.

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