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l'intervento
18 Novembre 2025 - 08:19
In Italia, in dieci anni, oltre 140mila negozi hanno abbassato la saracinesca. Non è un dato tecnico: è un referto. Significa interi quartieri più fragili, meno vissuti, meno sicuri. Significa che più di 26 milioni di cittadini abitano in comuni dove almeno una delle attività essenziali, alimentari, edicole, bar, ferramenta è sparita. Una desertificazione che trasforma le città in luoghi dove, a forza di perdere presìdi sociali, si perde anche fiducia nel territorio. E continuare a pensare che la cedolare secca sulle locazioni commerciali possa invertire da sola questa tendenza è una comoda illusione. Utile, certo; risolutiva, no.
Il punto è che il commercio non muore per una tassa di troppo, ma perché offre sempre meno a consumatori che chiedono sempre di più. Oggi chi acquista vuole esperienza, relazione, tecnologia integrata, comodità. Vuole cercare online, poi toccare con mano; vuole sapere subito disponibilità, tempi, alternative. Vuole spazi accoglienti, servizi rapidi, personale formato. E soprattutto vuole sentirsi parte di un luogo che vale il tempo che decide di investirci. Se il negozio tradizionale rimane fermo, mentre l’online corre, il consumatore semplicemente cambia marciapiede – digitale.
È qui che entra in gioco una verità che troppo spesso non si vuole vedere: per salvare il commercio serve creare hub commerciali all’altezza delle aspettative contemporanee, veri poli di quartiere capaci di unire vendita, servizi, socialità. Spazi multifunzionali dove si compra, ma anche si vive: eventi, laboratori, aree di coworking, ristorazione, servizi di prossimità. Luoghi dove digitale e fisico non competono, ma collaborano. Luoghi dove tornare ha un senso.
E c’è un altro elemento che non può più essere trattato come effetto collaterale: la sicurezza. Le strade dove i negozi chiudono diventano vie meno frequentate, più vulnerabili, più esposte al degrado. Al contrario, un tessuto commerciale vivo genera presenza, vigilanza naturale, relazioni. Restituisce dignità ai quartieri. E questo dovrebbe essere un obiettivo tanto politico quanto economico.
La verità è semplice: il commercio di vicinato non si salva con uno sconto fiscale, ma con una visione. Serve rigenerare, progettare, investire in modelli nuovi. Serve che istituzioni, imprenditori e cittadini capiscano che il negozio non è solo un luogo dove si compra, ma un presidio urbano, un punto di luce che tiene insieme comunità e sicurezza.
Se vogliamo evitare che le città diventino un grande catalogo di vetrine spente, è il momento di costruire hub vivi, contemporanei, utili. Solo così le strade torneranno a essere percorsi di vita, non corridoi di silenzio.
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