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l'analisi
24 Novembre 2025 - 08:51
Il piano di pace in corso di definizione (sempre che sarà così) perla soluzione della guerra che tra la Federazione Russa e Repubblica Ucraina sta raggiungendo i quattro anni di durata, è stato aspramente criticato dai paesi europei, perché reputato gravemente squilibrato a vantaggio degli interessi dello stato aggressore. Indubbiamente, alcuni dei suoi contenuti sono particolarmente afflittivi per Kyiv, dato che la si costringe a cessioni di territori nemmeno ancora occupati militarmente dall’esercito di Putin, la si obbligherebbe a ridurre le dimensioni del proprio esercito, la si vincolerebbe a non far parte della Nato in futuro, le s’imporrebbe il riconoscimento della Crimea e del Donbass come territorio russo.
Non mancherebbero, peraltro, elementi di compensazione, come la restituzione di alcuni territori attualmente occupati dalla Russia, la garanzia di protezione da parte degli Usa che si renderebbero mentori della pace, investimenti di rilievo per la ricostruzione, ed altro. Rispetto a questo piano, una parte autorevole dei paesi europei, si diceva, ha bollato il disegno di pacificazione come un vergognoso riconoscimento alla violenza del satrapo moscovita ed ha definito inaccettabili quelle condizioni, accusando Trump di pensare più agli affari con il suo collega ex sovietico che non alla libertà del popolo ucraino.
Ora, che di giusto ci sia poco in quel piano, è cosa su cui è difficile obbiettare. Il sol fatto che si dia legittimazione giuridica internazionale agli effetti di un’aggressione militare d’indiscusso cinismo e bieca brutalità, esclude si possa parlare di soluzione ispirata ad equità e moralità, quando attraverso di essa la violenza prevale su molta parte di quei criteri chiamati a regolare la convivenza pacifica tra i popoli. I principi fondamentali dell’autodeterminazione, della soluzione diplomatica delle controversie, del rispetto dei confini tra gli Stati e molto d’altro vengono posti in non cale. Ma, nel valutare l’assetto configurato da questo accordo in via di definizione ci si può limitare a questi parametri? È consentito cioè giudicare soltanto su tale base valoriale o non devono esser posti in bilancio anche altri, sia pur crudi e sgraditi, criteri di giudizio?
La storia insegna che le guerre fanno parte dell’avventura umana da epoca antropologica, quale sua componente, non solo mai mancata, bensì anche quasi sempre decisiva. Quando diversamente non si riesce, è stata la forza a risolvere i conflitti. Anzi, per essere più precisi, la soluzione bellica è stata spesso e volentieri scelta deliberatamente quale strumento per costruire gli scenari più graditi, senza nemmeno tentare soluzioni alternative. Si è deciso di farne uso, perché strumentoreputato il più adeguato al perseguimento die fini proposti, fini che non hanno affatto contemplato possibilità alternative per il loro raggiungimento. Basti pensare alla costruzione dell’impero romano, o a quello di Alessandro Magno o, anche, più vicino a noi, all’impresa hitleriana. Ma un po’ tutta l’età moderna è stata costellata da imprese pianificate attraverso lo strumento della guerra e l’attuale assetto degli stati europei ne è l’esito visibile.
La forza, sia all’interno delle organizzazioni politiche, sia nei rapporti tra di esse è sempre l’elemento finale, quello al quale, espressamente o implicitamente, si assegna il compito di mantenere l’ordine. E poi c’è anche dell’altro. Far cessare una guerra che sta provocando centinaia di migliaia di morti e che settimanalmente miete vite umane, procura dolore infinito, impedisce la vita quotidiana nelle sue più essenziali esigenze, non è forse un parametro in nome del quale è possibile sacrificarne altri? Non è un qualcosa che va posto anch’esso sul piatto della bilancia? E non va posto sul piatto della bilancia anche il fatto che la Federazione Russa possiede un arsenale termonucleare di potenza sconvolgente, che sta lì a dirci che oltre una certa soglia non è possibile andare? E l’Europa, che dichiara d’ispirarsi agli alti valori della civiltà occidentale – sempre che codesti valori possano ancora essere invocati – cosa è sta fin qui in grado di fare per proporre alternative?
È la medesima Europa, o non, che sta discutendo da almeno un par d’anni d’utilizzare gli asset finanziari congelati alla Russia per investirli nel sostegno in varia forma all’Ucraina aggredita? E che non è riuscita nemmeno ad assicurare collettivamente sostegno al Belgio, dove la gran parte di quella finanza è custodita, per il caso che qualche giurisdizione internazionale dovesse un domani (non è da escludersi) negare legittimità all’operazione e chiedere la restituzione alla Russia? Non è sempre l’Europa che, con le sue istituzioni, tanto complicate quanto inefficienti nel prendere decisioni, non ha nemmeno una posizione comune sulle determinazioni da assumere nei confronti di Mosca, al punto che si è creata una sotto organizzazione ad hoc, la fantomatica ‘coalizione dei volenterosi’, che ovviamente non è stata in grado di concludere alcunché?
Nell’ordine internazionale, ancor più che in quello interno, le parole contano, certo, ma solo fino ad un certo punto perché, se dietro di esse non v’è sostanza, non v’è cioè la possibilità di portarle ad effetto passando dal piano simbolico-linguistico a quello dell’attuazione nella realtà delle cose, creando assetti e concreti equilibri nei rapporti, non solo si casca nel grottesco e nell’insignificanza, ma spesso si peggiora anche, perché le situazioni incancreniscono e diviene poi ancor più difficile affrontarle per risolverle.
Ora, la proposta dei negoziatori americani non è certo quanto di meglio che potesse desiderarsi, anzi forse è assai lontana dall’auspicabile, ma non di meno tiene conto delle condizioni di possibilità, della potenza termonucleare con la quale s’ha da fare, della necessità di prendere atto dello stato di fatto, dell’assenza di fattive alternative se non si vuol correre rischi ulteriori d’escalation. Certo, la realpolitik è assai spiacevole, ma è concreta e, se s’intende raggiungere bilanciamenti diversi, bisognerebbe anche disporre dei pesi necessari da collocare sul piatto della stadera perché il braccio torni orizzontale: e questi pesi non si vedono per nulla sull’orizzonte europeo.
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