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LA RIFLESSIONE
25 Novembre 2025 - 09:00
I numeri delle elezioni regionali in Campania parlano chiaro, molto più di qualsiasi analisi di vincitori e vinti: il vero protagonista di questa tornata è stato ancora una volta l’astensionismo.
Oltre metà dei cittadini non si è recata alle urne. È questo il dato che dovrebbe inquietare più di percentuali e proiezioni, perché quando la maggioranza resta a casa non assistiamo semplicemente a un fenomeno statistico, ma a una frattura profonda nel rapporto tra cittadini e istituzioni. È il segno di una comunità che sospende la propria voce e rinuncia, consapevolmente o meno, a un pezzo di sé. Il silenzio, però, non è un vuoto innocente.
Ogni volta che un elettore decide di non partecipare, lascia che qualcun altro occupi il suo spazio. In Campania, come altrove, quel vuoto viene spesso riempito da reti organizzate, apparati che conoscono e governano i meccanismi del consenso. La democrazia, così, non crolla: si restringe. Si adatta ai numeri più bassi, diventa terreno di gioco di chi possiede strutture, fedeltà, strumenti.
E mentre la maggioranza si sfila, la minoranza conta di più. È un paradosso antico, ma oggi più che mai evidente. L’astensione non nasce dalla pigrizia. Nasce dal disincanto. Dalla convinzione – sempre più diffusa tra giovani, lavoratori, famiglie in difficoltà – che il voto non cambi nulla, che tutto resti com’è.
Nasce dal linguaggio autoreferenziale della politica, dall’incapacità di rappresentare la complessità della vita reale, dalle promesse che evaporano il giorno dopo le elezioni. Nasce, in fondo, da una distanza che ormai sembra un fossato. Eppure il voto resta l’unico strumento che mette sullo stesso piano tutti: chi ha potere e chi non ne ha, chi abita i quartieri centrali e chi vive nelle periferie dimenticate, chi ha voce e chi non è mai riuscito a farsela dare.
È un gesto piccolo ma decisivo, perché nessun’altra azione quotidiana consente di incidere direttamente sull’indirizzo di una comunità. Rinunciare non è un modo per punire la politica: è un modo per consegnare a pochi la possibilità di decidere per tutti. I dati di oggi ci ricordano che il problema non è una regione che vota in un modo o in un altro. Il vero rischio è credere che la democrazia possa funzionare comunque, anche se la maggioranza sceglie di disinteressarsene.
È una tentazione pericolosa: perché una comunità che non partecipa smette, lentamente ma inesorabilmente, di riconoscersi nelle proprie istituzioni. E quando non ci riconosciamo più in ciò che ci governa, allora sono gli altri – spesso i più organizzati, mai i più rappresentativi – a scrivere la nostra parte di futuro.
Il compito non è convincere qualcuno a votare per un partito. Il compito è ricordare a tutti che il voto non è un favore alla politica, ma un atto di appartenenza. Un gesto di responsabilità verso la propria terra e verso chi verrà dopo di noi. Perché la democrazia non cade all’improvviso: si spegne lentamente, ogni volta che restiamo in silenzio.
E quando è il silenzio a votare al posto nostro, la perdita non è politica: è sociale, civile, collettiva. È una ferita che riguarda tutti, anche chi pensa di poterne restare fuori.
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