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L’ANALISI

Trump impone nuova agenda, Europa lenta nelle scelte

Il documento strategico pubblicato la scorsa settimana dalla Casa Bianca trumpiana ha suscitato in Europa stupore e reazioni anche stizzite

Trump impone nuova agenda, Europa lenta nelle scelte

Donald Trump

Il documento strategico pubblicato la scorsa settimana dalla Casa Bianca trumpiana ha suscitato in Europa stupore e reazioni anche stizzite. Si tratta d’una sorta di programma d’azione politica, costellato da giudizi e prognosi circa il futuro del mondo ed il compito che vi toccherà agli Stati Uniti d’America.

Usa, un tempo vigili conservatori dell’ordine globale, oggi ben più ripiegati su loro stessi e su tutto quanto riguarda i loro interessi più vicini, secondo un criterio spiccatamente territoriale ed economico: non più obiettivi dettati da una sorta d’impegno etico, bensì da paradigmi straordinariamente pragmatici, ciò che rende l’America più grande sarà la bussola; o almeno ciò che è ritenuto capace di renderla great again.

Quanto all’Europa, essa in quel documento strategico è considerata un qualcosa di vecchio, goffo, illibertario, fonte di vincoli, inerme nella difesa, parolaio, antidemocratico, piena di pregiudizi che impediscono la libera espressione, non solo delle idee ma anche delle potenzialità.

E – cosa la più importante – è chiaro che oltreoceano non siano più disposti a farsi carico della nostra difesa dai pericoli, reali o immaginari, provenienti dall’Est. In sostanza, quel documento pone un ulteriore pesante mattone nell’edificazione del percorso che, nelle intenzioni del Presidente nordamericano dovrebbe portare all’assunzione entro il 2027 da parte dell’Europa della responsabilità nella difesa dei propri confini e delle nazioni di cui si compone.

Nella trasparenza di quelle pagine è chiaramente un delinearsi d’un contesto geopolitico profondamente trasformato. È un quadro che pone al centro del discorso la politica, appunto, non gli assetti istituzionali acquisiti. Dei secondi, è la stabilità, la continuità, il preservare equilibri raggiunti, ritenuti appaganti perché in grado d’offrire risposte efficaci e adeguate ai conflitti tra gli interessi presenti in un dato momento storico.

Della prima – della politica – invece, è il compito d’affrontare istanze del tutto nuove, incompatibili con il quadro delle strutture esistenti, delle alleanze operanti – e per alleanze, c’è da intendere, intese tra i potentati che formano i quadri regionali e globali – dei valori socioculturali acquisiti. Insomma, la politica guarda al nuovo che s’affaccia – o s’impone – e cerca d’acquisirlo per renderlo gestibile in forme appropriate di organizzazione.

È evidente che la politica ha preso il sopravvento in questa fase storica, rispetto agli apparati tradizionali. E la ragione precisa – ma ovviamente solo la piùimmediata – è la guerra scatenata dal Putin, che ha scombussolato tutti i precedenti ragionamenti europei. La guerra è la massima espressione della politica – che è la gestione della forza, nella logica dell’amico/nemico – quella cui la politica ricorre  qual suo un ultimo rimedio, finale strumento per la soluzione dei conflitti(spesso inevitabile, almeno per quanto ne sappiamo fino ad oggi).

La guerra della Federazione Russa è la guerra della più grande potenza termonucleare, forse anche maggiore degli Usa; ed è la guerra di un componente di diritto del Consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto. Dunque, è una guerra in grado potenzialmente di investire gli equilibri il mondo (il Putin non ne fa mistero) e che per ora ha creato ripercussioni di straordinaria valenza nei processi economici, non solo europei, provocando riallineamenti, nuove alleanze, triangolazioni, spostamenti territoriali di grandi unità imprenditoriali.

Questa intensissima realtà politica, questo straordinario sommovimento di scenari che ingenuamente si ritenevano stabili ed acquisiti, in una alle profondamente rinnovate strategie americane, richiedono risposte politiche serie e profonde. Dunque, richiederebbero, da parte dell’Europa, risposte pronte, ferme, rapide, adeguate.

Il problema, però, è che l’attuale infrastruttura politica dell’Europa – se anche può dirsi ci sia – è pensata per tutt’altre realtà ed esigenze: l’Europa è una grande stanza di compensazione per scambi commerciali e punto d’incontro per lobbies economiche, che si suddividono quote di mercato, creano, più o meno surrettiziamente, barriere protettive, favoriscono o integrano economie concorrenti.

È un luogo d’infinite ed estenuanti trattative, bizantine regolamentazioni ed incapace d’assumere con prontezza nessuna decisione, dove i difetti delle democrazie sono esasperati ed esasperanti, perché anche lontani dall’osservazione della pubblica opinione e rivestiti di tecnicismi per la gran parte incomprensibili.

Ma soprattutto è un luogo dov’è praticamenteimpossibile elaborare proposte unitarie in una fase storica in cui i nazionalismi e le esigenze della difesa territoriale hanno assunto un peso del tutto inimmaginabile, appena un lustro fa. A rendere ancor più trasparente questa incapacità è proprio il conflitto ucraino, dal quale evidentemente gli Stati Uniti si stanno ritirando(esercitando così una precisa pressione), mentre l’Europa si va mostrando inadeguata quale loro sostituto nell’assistenza finalizzata ad assicurare risorse belliche al paese aggredito.

È sufficiente osservare qual deprimente immagine che trasmette l’interminato confronto tra i paesi cosiddetti volenterosi circa l’utilizzo delle risorse della Federazione Russa congelate in istituzioni finanziarie belghe per comprendere la misura dell’attitudine alla decisione ed alla pronta reazione del vecchio continente.

È un confronto che dura ormai da oltre due anni senza che abbia – vergognosamente –portato ad alcuna conclusione, perché sembrerebbe che, a far la tara delle minacce parrebbe pervenute personalmente al premier belga, i paesi convolti non siano nemmeno disposti a rendersi solidale garanzia per il caso che la decisione fosse contestata al cospetto d’unqualche tribunale internazionale.

E c’è allora da chiedersi perché le democrazie registrino sempre maggiore freddezza negli elettorati occidentali mentre crescono le simpatie per gli autocrati? L’incapacità della scelta è il peggior difetto che la politica possamanifestare, perché in politica tutto è scelta, nulla è mera applicazione di regole, quelle son fatte per gli apparati.

È dunque oggi sarebbe necessaria una propositività politica di straordinaria presa, non atteggiamenti legalistici o di moralistico sdegno, che rispondono a quadri del tutto inattuali e conducono alla rovinosa paralisi. In questo senso – almeno in questo – la ‘scossa Trump’ potrebbe essere un salutare contributo al risveglio, prima che sia troppo tardi.

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