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LA RIFLESSIONE
15 Dicembre 2025 - 08:00
Dum Roma consulitur Saguntum expugnatur, mentre il Senato discetta, distingue, sottilizza, l’alleata, spagola e fedele città di Sagunto è conquistata da Annibale, e poi le cose si faranno molto più complicate.
Con questa antonomastica espressione di Tito Livio – che fu tristemente rinverdita nel settembre del 1982 dal cardinale Pappalardo, arcivescovo di Palermo in occasione delle drammatiche esequie del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, trucidato dalla mafia – si suole scolpire l’inconcludenza della politica, quando s’attarda in tergiversazioni, in luogo di decidere, il decidere essendo ciò che le compete, se ambisce ad incidere nei processi storici.
Decidere, significa assumere delle responsabilità, che comportano conseguenze possibilmente volute se ci si determina per tempo, prendendo così la guida dei processi storici, orientandoli in certe direzioni, piuttosto che lasciarli andare dove il destino li conduce.
Certo, si sa che la storia suole seguire la sua strada, sicché tutto quanto ti provi a fare, di frequente si dimostra poi impegno. Però, se si sta su questa terra, e s’è ambìto raggiungere posizioni di rilievo, da leader, poi è necessario almeno provarsi ad essere coerenti.
Quel che l’Europa non sta facendo, ché forse non è in grado di fare. L’ultimo provvedimento preso ha del grottesco. Perché vorrebbe, l’Unione europea, avere un ruolo, bensì più tenta d’attribuirselo, più s’interpreta in un tragico-ridicolo, manifestando la propria incapacità di produrre alcunché di fattivo.
Dopo infiniti contorcimenti, a maggioranza dei suoi componenti, con ulteriori sottodistinguo di alcuni paesi, tra cui l’Italia, è riuscita a stabilire che il l’immobilizzazione dei fondi giacenti presso istituti finanziari europei, e soprattutto in Belgio, da decisione di durata semestrale si trasforma in definitiva.
Si badi: non definitiva nel senso che quelle risorse potranno essere incamerate e destinate a sostenere l’Ucraina nella sua resistenza all’invasore russo, ma solo che il vincolo non dovrà esser semestralmente rinnovato. Se si dovesse decidere d’usarli, per carità non sia mai detto, si dovrebbero assumere ben altre decisioni, per le quali sarebbe necessaria l’impossibile unanimità.
Insomma, l’Europa, da superburocrazia qual è e qual è sempre stata, pensa di poter contar qualcosa nell’attuale congiuntura bellica, producendo un nulla giuridicamente forbito; o forse nemmeno lo pensa, ma pensa che comunque la cosa faccia gioco,nella sua mentalità da ufficio di produttore di circolari, regolamenti, direttive ed altro.
Perché la mentalità è un abito che crea forme ed illusioni; e c’è da credere che in quei paludati uffici abbiano pensato che l’ultimo ritrovato leguleio – trasformare il congelamento semestrale in congelamento stabile, fino a nuovo ordine – possa cambiare le sorti della guerra in atto.
O almeno dar l’impressione che quel luogo a Bruxelles effettivamente esista. Ovviamente, la decisione presa potrà lasciare soddisfatti coloro i quali condividono i valori della burocrazia lobbistica di un’istituzione, quella dell’Unione, ottima a governare processi in tempi di condivisa quiete, risibile quando la parola dalla burocrazia passa alla politica e cioè, in fondo, alla forza delle armi.
Quando il contesto è fatto di missili, droni, morte, macerie, sangue, queste risoluzioni producono solo amaro sorriso, magari qualche contenzioso – la banca Centrale Russa ha già annunciato d’aver deciso d’adire un arbitrato nel suo Paese – e dunque materiale per la riflessione giuridica, che potrà fornire elementi di ricerca e studio per dotti legulei e per commentatori discettanti in salotti mediatici.
Ma il terreno, quello in cui la vita si dibatte, di tutto ciò si fa un baffo. Sa che di simili inconcludenti realtà istituzionali, è necessario diffidare. Non c’è da credere a chi gabella per solidarietà, l’incapacità di prendere decisioni, la sostituzione di scelte che producono risultati sul campo, con determinazioni che producono contenziosi giudiziari, funzionali magari a ceti non particolarmente amati, quelli dei giuristi e dei burocrati, a portare a casa qualche provento in più.
Si duole, l’Europa, di non essere al centro delle trattative, di non essere coinvolta nei conversari di Trump e dei suoi emissari e famigli, di dover arrancare per darsi una disperata visibilità ed attribuirsi un ruolo. Ma i ruoli nella politica non sono il frutto della pura retorica, cioè di parole elette, sospirate al vento.
Le parole nella politica, come in tutto, sono sì fondamentali, perché creano l’ambiente spirituale che rende accette le decisioni, generanocondivisione, preparano il terreno per l’azione. Ma creano il terreno per agire, non per produrre altre parole, fossero anche parole legali.
In Ucraina si muore ogni dì, quotidianamente sono distrutti edifici, eliminati servizi, annichilite infrastrutture; la popolazione, pur assistita da risorse che vengono da noi, soffre il freddo, ha difficoltà in ogni atto del giornaliero svolgersi, non sa dove potrà prender sonno la sera.
E vede che, da una parte ci sono gli Stati Uniti d’America che possono continuare a prestarle assistenza (o togliergliela) con la straordinaria logistica di cui dispongono e dall’altra chi, tra ventisette paesi, si dibatte in disquisizioni giuridiche circa le modalità del trattamento dei tesori russi che custodisce.
Possiamo comprendere noi che ci sono le leggi del gran capitale che se ne infischiano delle categorie della diplomazia, della giustizia e di quant’altro rende gli uomini belli. Ma noi siamo al caldo e nelle nostre comode postazioni. In quei territori no.
E la politica, quella seria, deve farsi carico delle situazioni estreme, quando sono o possono essere destabilizzanti sul piano generale: deve farlo, non solo per le anime belle, ma perché ne soffre anche il gran capitale, che tende a spazzare via tutto quanto non torna ad esso più utile. E a me pare che l’Unione europea non torni più utile nemmeno al gran capitale.
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