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18 Dicembre 2025 - 09:24
La notizia arriva dal Giappone ed è stata rilanciata dai media internazionali, fino a trovare spazio anche in Italia: una giovane donna ha deciso di sposare un’Intelligenza Artificiale. Il fatto può apparire bizzarro, quasi provocatorio, ma ridurlo a una curiosità tecnologica sarebbe un grave errore. Questo matrimonio simbolico racconta molto più di quanto sembri: è il segnale di una solitudine strutturale che attraversa le società iperconnesse del nostro tempo.
Viviamo immersi nelle relazioni digitali, ma sempre più poveri di relazioni reali. L’episodio giapponese non è un’anomalia folkloristica: è la punta dell’iceberg di una solitudine globale, in cui la connessione costante convive con l’incapacità crescente di sostenere la complessità dell’incontro umano.
Perché scegliere un algoritmo al posto di una persona? La risposta è inquietante nella sua semplicità: l’Intelligenza Artificiale non tradisce, non abbandona e non mette mai in discussione. È programmata per aderire ai nostri desideri, per rassicurare, per dire sempre “sì”. In un mondo che fatica a tollerare il limite e il conflitto, il consenso perpetuo diventa un rifugio seducente.
Ma dal punto di vista educativo e umano, quel “sì” costante è una trappola. L’identità non nasce nella conferma, bensì nel confronto. Cresciamo attraverso l’attrito con l’altro, nella fatica di negoziare, nella capacità di reggere la frustrazione. Senza alterità non c’è relazione, senza relazione non c’è evoluzione del Sé. Sposare un algoritmo significa rinunciare a tutto questo: è l’Io che smette di rischiare e si chiude in un dialogo autoreferenziale.
Stiamo assistendo a uno slittamento profondo: dal progetto di vita condiviso, fragile e imprevedibile, a un progetto a senso unico, controllabile e privo di sorprese. Sempre più persone scelgono la sicurezza dell’isolamento digitale piuttosto che l’incertezza dell’incontro. Ma l’amore autentico non è sicurezza: è esposizione. Dove non c’è rischio, non può esserci nemmeno amore.
L’algoritmo elimina l’imprevisto, ma elimina anche la possibilità di essere visti davvero. Ciò che resta è una forma di consumo emotivo, in cui l’altro non è più un soggetto, ma una funzione del nostro benessere personale. È una relazione senza reciprocità, senza crescita, senza trasformazione.
La risposta non può essere una crociata contro la tecnologia. Il problema non è l’Intelligenza Artificiale, ma il vuoto educativo che la rende così attraente. Serve una svolta pedagogica profonda, che rimetta al centro l’educazione emotiva, la capacità di stare nel disagio, di attraversare il conflitto senza fuggirlo.
Scuola e famiglia devono tornare a essere luoghi in cui si impara che comprendere chi è diverso da noi è un esercizio faticoso ma indispensabile. L’empatia non è automatica, non è programmabile: è un muscolo che cresce solo nel contatto reale, nello sguardo, nella parola che può ferire e curare allo stesso tempo.
Mentre celebriamo i progressi della tecnica, rischiamo di smarrire il linguaggio dei sentimenti. Se rinunciamo a educare all’umano, il futuro sarà popolato da individui perfettamente connessi e profondamente soli.
Il matrimonio con un algoritmo ci pone una domanda scomoda ma inevitabile: siamo ancora disposti a rischiare l’amore imperfetto di un essere umano, o preferiamo la rassicurante solitudine di uno specchio digitale?
*Pedagogista
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