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la riflessione
22 Dicembre 2025 - 08:00
Il 10 dicembre 2025 da Nuova Dehli è giunta al governo italiano e sui media di tutto il mondo la risposta favorevole del Comitato intergovernativo Unesco alla richiesta del 23 marzo 2023 dei Ministeri dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste e della Cultura di candidare la "Cucina Italiana" a "Patrimonio Immateriale dell'Umanità".
La candidatura - come precisava la stessa domanda interministeriale - non riguardava "un singolo piatto o una ricetta, ma un modello culturale condiviso, fatto di esperienze comunitarie, scelta consapevole delle materie prime, convivialità del pasto, trasmissione dei saperi alle nuove generazioni e rispetto delle stagioni e dei territori".
Nelle motivazioni della proposta tricolore si specificava altresì che "la cucina italiana è la 'cucina degli affetti': trasmette memoria, cura, relazioni e identità, raccontando storie di famiglie e comunità attraverso il cibo. Riflette il legame tra paesaggi naturali e comunità, incarnando memoria, quotidianità e cultura dei territori".
L'iniziativa intrapresa dal governo italiano quasi due anni addietro - a mia conoscenza la prima del suo genere - era stata meritoria nelle sue ragioni, puntuale nel suo iter (fatto di almeno dieci tappe nazionali e internazionali ufficiali) e straordinaria nella sua conclusione.
Va aggiunto che il suo risultato finale, per quanto giustamente celebrato dal ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida, costituisce un punto di partenza e non di arrivo.
Lo stesso alto rappresentante del governo lo ha precisato quando, a commento del riconoscimento Unesco, ha dichiarato: "È la festa delle famiglie che tramandano sapori antichi, degli agricoltori che custodiscono la terra, dei produttori che lavorano con passione, dei ristoratori che portano nel mondo il valore autentico dell'Italia".
Per concludere con un lapidario, e (appunto) interlocutorio: "Questo riconoscimento è motivo di orgoglio, ma anche di consapevolezza dell'ulteriore valorizzazione di cui godranno i nostri prodotti, i nostri territori, le nostre filiere. Sarà anche uno strumento in più per contrastare chi cerca di approfittare del valore che tutto il mondo riconosce al Made in Italy e rappresenterà nuove opportunità per creare posti di lavoro, ricchezza sui territori e proseguire nel solco di questa tradizione che l'Unesco ha riconosciuto come patrimonio dell'Umanità".
Non entro nell'agone tutto italiano dei meriti e delle svalutazioni, delle attribuzioni cerimoniose e nelle analisi livorose, mi interessa molto di più rimarcare due aspetti che il ministro ha sottolineato, considerando entrambi momenti di criticità per la sopravvivenza stessa del nostro patrimonio agroalimentare.
Difendere i nostri prodotti significa tutelare le nostre campagne e le nostre imprese del settore con iniziative politiche (legislative), culturali (formative) e sociali (affettive) che davvero vogliano cambiare il paradigma di un declino che, al contrario, sembra allo stato sempre più inesorabile.
Difendere il made in Italy è sì ricordare, ma non in una commemorazione posticcia e di maniera, bensì sollecitare l'ascolto, quale atto libero - per quanto sempre più urgente necessario - di chi vuole, e ripeto vuole, mettere tutto il suo impegno, il suo sapere e il suo sacrificio, per continuare tradizioni che non possono essere svilite da eventi naturali, costanti insoddisfazioni economiche e arretratezze burocratiche e tecniche.
Si crei un nuovo tessuto economico e sociale a sostegno del bellissimo risultato ottenuto, altrimenti sarà solo un'altra coccarda - di qualunque colore politico essa sia - da appuntarsi alle feste di un paese i cui prodotti saranno vergognosamente generati e forse pure confezionati altrove.
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