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27 Dicembre 2025 - 09:59
Per oltre trent’anni la globalizzazione è stata presentata come un processo inevitabile e benefico: mercati aperti, crescita diffusa, riduzione della povertà, convergenza dei modelli economici e, insieme alle merci, circolazione dei valori liberali.
Una promessa che sembrava potersi realizzare quasi automaticamente, senza una vera regia politica. In parte è accaduto: centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà e la qualità della vita globale è migliorata come mai prima nella storia. 800 milioni di persone, solo in Cina, sono usciti dalla soglia della povertà.
Ma quella globalizzazione conteneva una fragilità originaria: si fondava su regole condivise senza dotarsi di strumenti credibili per farle rispettare, né di una riflessione sulla sicurezza.
Il mercato unico europeo e la Corte di giustizia hanno fatto dell'Unione un'eccezione mentre gli Stati extra-UE decidevano a loro piacimento quando e come rispettare le regole o non rispettarle, come nel caso degli aiuti statali cinesi in violazione del trattato dell'Organizzazione Mondiale del Commercio.
In fondo v'era l'ingenua considerazione di sottoporre a regole comuni Paesi con differenti livelli di sviluppo e differenti considerazioni dello stato di diritto e del principio di legalità. Grandi attori hanno piegato il libero scambio a strategie di potenza, accumulando surplus, controllando filiere critiche, usando l’interdipendenza economica come leva politica. Gli squilibri commerciali non sono stati un effetto collaterale, ma una scelta.
E l’idea che commercio e democrazia avanzassero insieme si è rivelata un’illusione: i beni hanno attraversato le frontiere, i valori no. Le conseguenze sono state profonde. Nei Paesi avanzati la quota di reddito da lavoro è diminuita, gli investimenti pubblici si sono ridotti, il potere contrattuale dei lavoratori si è eroso.
Ampi segmenti dell’opinione pubblica si sono sentiti lasciati indietro soprattutto in occidente. Il risultato politico è che la globalizzazione non solo non ha rafforzato le democrazie, ma ne ha minato il consenso interno. Pandemia e guerra hanno segnato il punto di svolta.
La guerra di aggressione russa in Ucraina ha imposto una verità che per anni si era preferito eludere: sicurezza economica e sicurezza militare sono inseparabili. Dipendere da fornitori inaffidabili per energia, tecnologie, materie prime o capacità industriale non è solo un rischio economico, è una vulnerabilità strategica.
Da qui il ritorno dello Stato, il reshoring, la ridefinizione delle catene del valore. E, inevitabilmente, il riarmo. Il riarmo non è un incidente della storia, ma il sintomo di un mondo che ha smesso di credere che la pace potesse essere garantita dal commercio.
La difesa torna a essere un bene pubblico essenziale, e con essa l’industria militare, la ricerca tecnologica dual use, la capacità produttiva nazionale ed europea.
Questo cambia radicalmente il quadro macroeconomico: aumentano gli investimenti, ma non per espandere l’offerta in senso tradizionale; spesso per sostituire capitale reso obsoleto da nuove minacce. Come per l’energia, anche nella difesa si investe per mantenere la capacità, non per accrescere il flusso.
In questo contesto, il paradigma degli ultimi decenni fatto di bassa inflazione, tassi reali compressi, politica monetaria come principale strumento di stabilizzazione, non regge più. Entriamo in una fase caratterizzata da shock dell’offerta più frequenti e più intensi, da transizioni costose e da una competizione strategica permanente.
La politica fiscale è chiamata a svolgere un ruolo centrale: per finanziare la difesa, sostenere l’industria strategica, proteggere i redditi più esposti e garantire coesione sociale. Questo implica deficit più elevati e scelte politiche esplicite. Non esiste riarmo sostenibile senza consenso democratico, e non esiste consenso senza equità.
Se la sicurezza diventa priorità, deve esserlo anche la distribuzione dei suoi costi. La stabilizzazione dell’economia non può più essere demandata quasi esclusivamente alle banche centrali: in un mondo di shock dell’offerta, la politica monetaria può solo limitare i danni, non prevenirli.
Si apre così una fase in cui coordinamento e visione strategica diventano indispensabili. Indipendenza delle istituzioni non significa isolamento. Come dimostrato durante la pandemia, politiche fiscali, monetarie e industriali possono e devono essere allineate.
In Europa questo pone una questione decisiva: il riarmo può essere sostenibile solo se affrontato come progetto comune. Difesa europea, investimenti condivisi, capacità industriale integrata non sono più tabù ideologici, ma necessità storiche. La posta in gioco va oltre l’economia.
È politica, sociale, democratica. I cittadini accettano sacrifici solo se percepiscono uno Stato che protegge, include e decide. La stagione dell’illusione globalista è finita; quella del puro nazionalismo sarebbe un errore simmetrico.
Tra questi due estremi c’è una strada più difficile ma inevitabile: una globalizzazione selettiva, governata, ancorata alla sicurezza e alla democrazia.
Il riarmo, se non accompagnato da questa visione, rischia di diventare solo una corsa agli armamenti. Se invece è inserito in una strategia politica coerente, può diventare parte di una nuova architettura di stabilità. Sta ai leader scegliere.
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