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Il punto
28 Dicembre 2025 - 09:00
Personalmente, non sono in grado di dire se il rischio paventato da Di Pietro - già numero uno dei pm di “Mani Pulite” e oggi principale testimonial del comitato per il “sì separa” - sia vero o meno. Ma, considerata la fonte da cui sgorga, non lo prenderei con tanta nonchalance.
Ancora di meno fingerei di non vederlo, non prendendolo in alcuna considerazione, come ha fatto la stragrande maggioranza degli organi d’informazione nostrani, cartacei o eterei che siano.
Mi riferisco - probabilmente l’avrete già capito, sempre che, ovviamente, siate riusciti a venirne a conoscenza, visto il totale silenzio stampa, del quale pur comprendo il motivo, e il silenzio delle “truppe cammellate” antiriforma sull’argomento - alla denuncia per la quale, secondo l’ex pm molisano, si sarebbero già messi in movimento partiti, sindacati e organizzazioni del “no separa” per provare a taroccare il voto e, quindi, il risultato finale del prossimo referendum sulla riforma della giustizia e la separazione delle carriere fra magistratura inquirente e magistratura giudicante.
Di fronte a questo pericolo - con le conseguenze che comporterebbe, se dovesse davvero diventare realtà: Italia non più Stato di diritto ma giudiziario; niente sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura (per i pm inquirenti e per i giudicanti); niente Alta Corte disciplinare; i pm che potranno continuare a ricorrere contro chi è assolto; ancora possibile la carcerazione preventiva; e, infine, niente introduzione in Costituzione del principio sacrosanto per il quale “i magistrati (che oggi godono di una sostanziale impunità, ndr) sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti, al pari degli alti funzionari e dipendenti dello Stato” - anche girare la testa dall’altra parte appare quantomeno fuori luogo.
Senza parlare della situazione di (in)sicurezza e della sensazione d’impunità che si fanno sempre più pesanti e della preoccupazione crescente fra i cittadini, che in parte è ascrivibile anche a quell’area della magistratura ideologicamente politicizzata che, per combattere il governo, lo contesta anche disapplicandone le leggi.
Non scopro, infatti, l’acqua calda se dico che è noto a tutti - addetti ai lavori, politici in “servizio permanente effettivo” o vertici dei partiti - la presenza in Italia, come all’estero, di molteplici organizzazioni in grado di spostare dal “sì” al “no” almeno due milioni di voti degli italiani che votano all’estero.
Dal momento che - ed anche questo è notorio a tutti - sono tantissime le difficoltà, stante le attuali norme in proposito, di controllare l’effettiva identità di chi vota oltre confine, ancor di più se iscritto all’Associazione Italiani Residenti all’Estero, votando per corrispondenza.
Il che deriva da quella sorta di “lavoro nero” svolto dai succitati sodalizi “spostavoti” che si accollano lo scomodo di raccogliere le liste degli aventi diritto al voto, realizzare le necessarie schede elettorali, votarle senza che l’elettore ne venga messo al corrente e spedirle alle ambasciate in Italia dove vengono scrutinate.
E così i consensi passano da una parte all’altra. Una questione tormentata e più volte, negli ultimi anni, salita agli onori delle cronache per esposti, denunce e inchieste giornalistiche. Sicché il rischio di cui all’inizio è tutt’altro che insignificante. E non è il caso di prenderlo troppo alla leggera. Sicché, piuttosto che farsene complici zittendo e girando la testa dall’altra parte, sarebbe il caso di chiedersi cosa fare per impedire che si realizzi.
E considerando che - come evidenziato prima - non basta un maggiore controllo della correttezza del voto al momento dello scrutinio, cosa che, tra l’altro, come scritto sopra, è difficilissima, è necessario che i fautori del “sì” non si facciano fuorviare dai sondaggi che sembrano dare ragione alle loro tesi, ma provino a stimolare i sostenitori non attivisti del “sì”, sollecitandoli ad andare a votare e a convincere quanti più elettori possibili a comportarsi allo stesso modo, andando alle urne e spiegando loro ragioni e motivazioni per dire “sì”.
Non solo perché quella della giustizia è una riforma che questo Paese aspetta da decenni, ma anche per vanificare l’eventuale tentativo di taroccamento e, ancora di più, perché servirebbe a completare quella riforma Cartabia che nel 2022 ha già aperto la strada alla separazione delle carriere dei magistrati fra inquirenti e giudicanti, fermandosi però a metà strada.
In realtà, la vera e definitiva alternativa sarebbe quella di cambiare la legge elettorale per gli italiani all’estero, nel caso di referendum, sulla scorta di come si vota per le europee: in presenza nelle sedi dei consolati o per corrispondenza attraverso la spedizione diretta di un plico elettorale con il voto alle ambasciate in Italia dove si effettua lo scrutinio.
Ma, considerato il pochissimo tempo a disposizione (si vota a marzo), una decisione del genere solleverebbe un enorme polverone contro il centrodestra “autoritario” che avrebbe cambiato le carte in tavola a giochi in corso.
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