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IL PUNTO
03 Maggio 2025 - 14:15
Nigel Farage
«Quest’area del Regno Unito rappresentava il cuore del Partito Laburista, che è crollato e gran parte dei suoi voti si sono riversati sul nostro. Come i consensi del partito conservatore Tory. Ora siamo il partito di opposizione ai laburisti nel Regno Unito». È stato il primo commento di Nigel Farage, l’ex ‘uomo della Brexit’ e leader del partito di destra Reform UK. Alle suppletive di Runcorn e Helsby, nell’Inghilterra occidentale, finora indiscusso serbatoio elettorale laburista, la sua candidata Sarah Pochin ha non solo battuto i laburisti del premier Keir Starmer - appena dieci mesi addietro vincitore alle elezioni legislative - ma ha pure cancellato ciò che restava del concorrente partito conservatore. Reform UK aumenta la presenza nel parlamento di Londra, ch’è ridotta per il sistema maggioritario. E prevale in molti altri centri nel voto amministrativo locale. Farage esce dall’eclissi cui l’aveva condannato una Brexit dalle conseguenze piuttosto deludenti. Ma ciò che più conta sono le indagini demoscopiche: concordano nell’indicare che la crisi dei conservatori è lungi dal risolversi; che quella dei laburisti è cominciata ad appena dieci mesi da una storica vittoria, dopo una lunghissima opposizione; e che Reform UK è in testa nelle intenzioni di voto. Si andasse ad elezioni generali anticipate, risulterebbe il primo partito del Paese.
IL RECUPERO DI FARAGE
Il recupero improvviso dei favori per Farage conferma una tendenza ormai radicata: la guerra in Ucraina e la pessima gestione dell’Unione Europea hanno provocato sia un rilancio a livello continentale dei partiti di destra, a spese di quelli del centrodestra; sia una spaccatura vieppiù evidente tra le forze politiche di sinistra: tra le libertarie ‘pacifiste’ e le post-comuniste più o meno camuffate e alla ricerca di bandiere sotto le quali accamparsi. La vittoria della rinata destra britannica, ora definita “estrema destra”, avviene mentre si conferma la tendenza nell’Europa democratica a estromettere le cosiddette “estreme destre” dalla competizione elettorale che sola dovrebbe deciderne le sorti.
Da ieri, Alternativa per la Germania (AfD) è, secondo l’Ufficio per la protezione della costituzione tedesca, una forza politica “estremista”. Verrà dichiarata fuorilegge? Nelle indagini demoscopiche risulta essere potenziale primo partito in Germania con un 30% di favori. In Romania si ri-vota dopo l’annullamento del primo turno nel quale aveva prevalso Calin Georgescu, leader della destra favorevole al negoziato con Mosca. Estromesso Georgescu, il candidato che lo sostituisce non ne ha il carisma. In Francia la ‘estromissione’ di Marine Le Pen dalle prossime presidenziali è giunto all’indomani del risultato dei sondaggi che confermavano il primato (in ascesa) di Rassemblement National. Vale la pena ricordare i condizionamenti e le “intromissioni” nelle campagne elettorali in Ucraina, Georgia, Moldavia e Gaugazia… e via elencando. Vale la pena ricordare pure gli sfacciati silenzi – di governi e media - sulla dittatura in cui è precipitata l’Ucraina, condannata dal suo regime a subire centinaia di migliaia di vittime, milioni di espatriati e-o fuggitivi, immani devastazioni, purghe al vertice e repressione alla base. E una guerra raccontata con versione ‘unica’ di fatti e misfatti.
LE TERRE RARE
Coincidenza della cronaca che s’innesta nella storia, la firma del regime di Kiev al patto sulle ‘terre rare’ ieri s’è affiancata a quella della Casa Bianca, sbloccata da un rassicurante invio di armi che, paradossalmente, dovrebbe preludere… alla tregua militare tra Ucraina e Russia. Ma che altro potremmo ancora aggiungere sull’Ucraina? Chi scrive potrebbe mettere al passato prossimo i verbi al futuro utilizzati nei primi articoli scritti per il “Roma”, tre anni fa. Tutto, purtroppo, è andato com’era presumibile. “Volodymyr Zelensky si renda contro che l’Ucrania ha perso la guerra”: glielo ha ripetuto ieri Donald Trump. Poteva mai vincerla? Era dal 2006 che Vladimir Putin avvertiva la Nato a non allargarsi ulteriormente fino ad “abbaiare all’uscio della Russia”, per riprendere le parole di Papa Bergoglio. Se Mosca non era più nemica, perché portare le armi dell’Alleanza Atlantica alle sue frontiere? E adesso quale pericolo rappresenta per l’Europa un esercito che, in tre lunghi anni, neppure è riuscito a riprendere tutti i territori russofoni in Ucraina, ma che egualmente spinge la Nato a includere anche i Paesi tradizionalmente neutrali (Svezia, Finlandia); a costruire una immensa base militare in Romania sulle sponde del Mar Nero; addirittura a programmare un riarmo che sarebbe stato ragionevole in altro momento, ma che ora è sospetto per finalità e dimensioni?
Immensi sono stati i danni che hanno provocato le amministrazioni americane influenzate dai Neocon, che puntavano allo smembramento della Russia, e le più che mediocri leadership del Vecchio Continente, incapaci di difendere gli interessi europei. La Russia non è crollata sotto il peso delle armi e delle sanzioni ma si è adattata e addirittura la Banca Mondiale l’ha inserita ultimamente nel gruppo dei Paesi ad alto reddito. Il risultato è stato solo quello di spingere la Russia nelle braccia della Cina. Miserevoli i pentimenti dell’ex premier britannico Boris Johnson, come le furbizie di Angela Merkel e consoci a proposito degli ingannatori Accordi di Minsk.
Il peso delle intese che si prospettano tra i leader delle Grandi Potenze rischia di ricadere sulle spalle dell’Europa. Donald Trump non è – purtroppo per noi europei – Ronald Reagan. Ragionava, Reagan, sui destini dell’Occidente, l’euroatlantico e l’euroasiatico (la Russia). L’attuale capo della Casa Bianca guarda agli interessi degli Stati Uniti, all’Europa se d’utilità. I dazi servono a Trump per raggiungere intese: con Cina e Russia, in prospettiva con le altre potenze ‘regionali’ emergenti. Il tempo stringe per il presidente americano, le elezioni di mid-term sempre meno lontane. Ne tenga conto anche Roma: dopo una sbandata verso i ‘volenterosi’, ha recuperato. Ma il difficile è dietro l’angolo.
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