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La riflessione
21 Luglio 2025 - 09:58
Lo scandalo urbanistico fu il titolo di un libro pubblicato nel 1964 da Fiorentino Sullo, un ormai dimenticato notabile democristiano che, come ministro dei Lavori pubblici, aveva tentato d’opporsi alle speculazioni peggiori che all’epoca, come del resto oggi, si realizzavano attraverso il combinarsi meccanismo espropriativo con quello dell’individuazione delle aree edificabili nei piani regolatori. Ne uscì distrutto, anche auspice Ciriaco De Mita, e finì i suoi non lieti giorni rimediando una modesta nomina a consigliere di Stato. Per dire che intorno all’urbanistica si sono sempre scontrati interessi profondamente contrapposti: da una parte, quelli dei signori del cemento, animati da voraci pulsioni di consumo del territorio; dall’altra, quella ambientalista, sempre più radicale e non meno estrema nell’opporsi ad ogni trasformazione, ad ogni ulteriore attività edificatoria.
Due poli diversi e contrapposti, tra i quali dovrebbe essere la politica ad intervenire, ricercando quella linea di mediazione, in grado di riconoscere le ragioni di un’attività imprenditoriale che incrocia esigenze obiettive e non solo proprie, preservando al contempo condizioni urbanisticamente possibili, senza cioè trasformare le città in alveari cementificati ed asfissianti, fucine di alienazione e criminalità. La politica, appunto. Non la magistratura, e non solo per ovvia ripartizione di ruoli, bensì anche perché gli strumenti dei quali essa dispone sono evidentemente rudimentali e del tutto inappropriati rispetto alla complessità delle esigenze che si giocano quando si discute di governo del territorio. La magistratura può incriminare, incarcerare, ordinare sequestri e demolizioni: tutto quanto, in effetti, normalmente non fa che peggiorare le cose, creare sofferenze e pregiudizi, anche nei confronti di ignari ed incolpevoli, ma soprattutto non produce per nulla risultati positivi né sull’organizzazione delle città, né sul benessere dei cittadini, né più generalmente sull’andamento dell’economia.
Tutto questo mi viene in mente, è ovvio, a seguito di quel che si va leggendo sull’indagine milanese. In essa sembrerebbe non esser stata violata alcuna norma precisa dello strumento urbanistico nel rilasciare gli atti abilitativi che hanno permesso la realizzazione di moderni, ma anche imponenti interventi edilizi ed urbanistici definiti di riqualificazione. Nessuna norma vietava che quelle autorizzazioni fossero accordate, almeno a quel che si ne comprende dall’informazione ad oggi. Ma secondo la Procura, le decisioni assunte, pur presentate «di spessore scientifico e sociale» sarebbero prive di «interesse pubblico» e «al di fuori di ogni canone logico»; il tutto aggravato dal fatto che, ancorché essere gabellato per espressione di ‘utilità sociale’, si tratterebbe di uno studio svolto «unilateralmente da un libero professionista nel chiuso del suo studio professionale […] in assenza cioè di qualsivoglia contraddittorio pubblico».
Simili espressioni sottendono evidentemente un controllo di razionalità, se non anche di virtù, sulle scelte urbanistiche compiute dal comune: un controllo che per vero assomiglia molto alla valutazione discrezionale propria di ogni pianificatore, dunque propria del comune di Milano in questo caso. È vero: la magistratura contesta a sostegno delle accuse – per le quali ha richiesto, immancabile, la disponibilità di più d’un quartino in quel di san Vittore – una serie di ipotizzati conflitti d’interesse tra l’architetto Marinoni, presidente della commissione comunale competente a rilasciare all’epoca i pareri necessari alle deroghe previste dallo strumento urbanistico vigente, e più d’un soggetto coinvolto negli investimenti edilizi. Conflitti che andrebbero ravvisati in pluralità d’incarichi professionali conferiti al suddetto professionista dai medesimi soggetti da lui beneficati con le autorizzazioni o da soggetti riferibili a quei nuclei imprenditoriali.
Insomma, un’ipotesi evidentemente ancora tutta da verificare, puntualizzare e valutare nella sua concreta fondatezza. Ma un’ipotesi che correda il tema edilizio, non la ragione dell’indagine: perché la ragione dell’indagine è costituita evidentemente dall’assetto urbanistico che Milano sta acquisendo grazie a quelle scelte, considerate prive di razionalità dall’ufficio inquirente milanese. E qui mi sembra il vero punto. La Procura sta indagando con i propri mezzi penali perché ritiene inaccettabili le decisioni urbanistiche del comune di Milano; e su questo presupposto ha ipotizzato che quelle scelte – pur non vietate dalla locale disciplina urbanistica – non possano che essere il frutto di collusioni e deviazioni da perseguire penalmente. Ora, questo è il punto che mi pare caratterizzare questa indagine: essa nasce dalla non condivisione delle decisioni assunte nei limiti dei propri poteri dalla Commissione comunale e dal comune meneghino nel suo complesso.
E dunque nasce da una sovrapposizione di orizzonti nella programmazione urbanistica nel capoluogo lombardo che a mio avviso dietro contestazioni formali – il conflitto d’interesse, che ovviamente è grave – presentano una visione del potere giudiziario quale forma di controllo della virtuosa amministrazione. In altri termini, alla fondamentale divisione tra potere giudiziario ed amministrativo, la Procura di Milano pare supporre una cogestione della funzione programmatoria, da suddividersi tra essa ed il comune, ovviamente con prevalenza della propria visione.
Conflitti d’interesse, traffici d’influenza, ipotesi corruttive, sono tutti veicoli che hanno il compito di autorizzare la giurisdizione ad entrare in scelte programmatorie che non competono ad essa. E questo il problema di fondo che ci affligge da anni e che ancora in questi giorni vede tornare al massimo livello lo contro tra Anm e Governo. Vedremo come finirà la storia di Milano, ma essa non è che un epifenomeno: la piattaforma dalla quale stacca, è molto più solida ed attiene alla definizione di compiti e ruoli istituzionali, che mai nessuna legge potrà fissare nel dettaglio e che dovrebbe essere rimessa alla sensibilità di ciascun attore. Vasto problema, avrebbe detto De Gaulle.
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