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l'analisi
11 Agosto 2025 - 10:20
La vicenda che sta contrapponendo un’ennesima volta, e questa volta a livelli molto alti, il Governo della Repubblica alla Magistratura della medesima Repubblica, dovrebbe insegnare qualcosa. La vicenda è relativamente semplice. Nello scorso mese di gennaio incappa nelle maglie della Corte penale internazionale il generale libico Almasri. Guarda un po’, dopo che il ceffo se l’era spassata per mezza Europa, il mandato viene emesso quando egli si trovava in Italia, ovviamente non per consultare qualche volume della Casanatense, bensì per assistere ad una partita di calcio. Almeno così mi pare di ricordare, ma poco monta.
Si sa che tra la Libia e l’Italia corrono quei rapporti intensi che l’ex presidente della Repubblica francese Sarkozy, uomo abbastanza spregiudicato, cercò di guastare, provocando la caduta di Mu’ammar Gheddafi, per sostituirvi un governante amico (manovra che a causa della sottoposizione dell’allora Presidente del consiglio Berlusconi ad indagini relative alla Rubacuori, non fu possibile impedire). Orbene, la politicamente inopportuna richiesta della Corte penale internazionale d’arrestare il sunnominato torturatore libico avrebbe – come ormai è noto grazie alla segretezza delle nostre indagini preliminari – provocato rischi estremi a detenuti italiani in Libia, oltre che a tanto d’altro. Il Governo italiano commette un errore, la cui ragione è nella sottovalutazione (o sopravalutazione) della Magistratura.
Commette l’errore di non porre, illico et immediate, il segreto di Stato. Si tratta dell’unica isola irraggiungibile da parte die giudici (almeno sino ad oggi), nel senso che, quando viene interposto dal Presidente del Consiglio dei ministri, nessuno può mettervi più bocca, si è nel puro della dimensione politica. Tanto che il solo Parlamento potrebbe farne questione, questione politica appunto, sfiduciando il Premier ed eventualmente tutti gli altri premier che a lui seguissero e che si ostinassero, contro la volontà delle Camere, a mantenere il segreto. Così va il mondo ed esistono i segreti che nell’interesse della salus rei publicae – la salvezza di noi tutti – valgono più di veritiere o mendaci pandette, insomma valgono più del diritto, che sa mentire assai meglio della politica, in nome di giustizia e verità.
E qui è il punto. Il Governo presieduto dall’onorevole Meloni, nei suoi massimi esponenti, i ministri dell’Interno, un ex prefetto, e quello della Giustizia, un ex magistrato, hanno commesso a mio avviso l’errore di sottovalutare il potere della Magistratura (o sopravalutarne il senso di responsabilità). A mio avviso, perché entrambi hanno una formazione giuridica e dunque, in una certa misura, inconsapevolmente confidenti della razionalità del diritto. Eppure, il vecchio Giolitti aveva avvertito: le leggi s’applicano ai nemici, s’interpretano per gli amici. Una Magistratura sentitamente avvertita all’interesse della Repubblica avrebbe evitato d’indagare più di tanto. Avrebbe cioè dato per buoni i motivi formali che il ministro della Giustizia aveva in Parlamento chiariti, quali base delle proprie decisioni, vale a dire un mandato della Cpi che, per motivi che non sto qui a ricordare, era intriso di non trascurabili incongruenze. Ed avrebbe accettato che il ministro della Giustizia, cui la legge attribuisce il potere (dunque una possibilità di decisione) di dare seguito ai mandati della Cpi – altrimenti sarebbero bastati magistrati e Procura Generale, se si fosse trattato di mera esecuzione – abbia anche il potere di non darvi esecuzione se ci sono profili di dubbio sulla legittimità dei mandati emessi.
Una Magistratura che sa bene quali sono le ragioni d’interesse nazionale – e non personale del ministro, del presidente del consiglio o di chi altri che sia – che hanno presieduto a quella scelta, non sarebbe stata lì a spaccare il capello in quattro ed a discettare della sussistenza o meno d’interessi essenziali del Paese, o a mettere a confronto dichiarazioni, registrazioni, testimonianze e quant’altro possibile d’acquisire per cogliere il Governo in castagna e chiederne il rinvio a giudizio: con quell’ulteriore cavillosa sofisticheria, di tenerne fuori la sola Presidente del consiglio, la quale ovviamente – da donna di carattere – s’è sentita trattare come un’oca giuliva che non sa, su questioni d’ordine internazionale ed affari fondamentali dello Stato, quel che accade sotto di lei.
Ma qui è il punto, ed è un punto che deve istruire. Ci sono cose dalle quali i magistrati vanno tenuti fuori, radicalmente: e sono le cose squisitamente politiche. Se si lascia loro la possibilità d’entrarvi, fanno poi quello che credono e non ci saranno argomenti che potranno tenere per contrastarne i convincimenti o gli obiettivi che per una ragione o per un’altra si saranno prefissi. Il diritto non consiste in altro che in una sequela di parole, di parole significanti significati estremamente variabili, quali simboli per comunicare e contribuire a creare una realtà già da sé vaga e sfuggente. È per questa ragione che Charles Sanders Peirce – il fondatore del pragmatismo americano e del correlato metodo linguistico – parlava di ‘semiosi infinita’, che, detto semplice, significa che le parole s’interpretano con altre parole, a loro volta interpretabili con altre parole, in un’interminata sequela d’interpretazioni.
‘Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni’, avrebbe scritto nella Gaia scienza in quello stesso, straordinario torno di anni nessuno meno che Friederic Nietzsche. La legge è inoperosa senza i giudici che le assegnino significati, ma sono loro ad assegnarglieli, non altri, e con gran libertà di movimento. E di questo bisogna temer conto, per il passato – come esperienza – per il futuro, come indirizzo nell’azione.
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