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Trump-Putin: pace a dispetto dell’Ue?

Trump è sicuro che questo sia il momento di strappare un successo internazionale

Trump-Putin: pace a dispetto dell’Ue?

Donald Trump e Vladimir Putin

Quasi affetti da una nevrosi psicomotoria, i leader dei maggiori Paesi dell’Unione europea ‘volano’ – ignorando whatsapp da una capitale all’altra del Vecchio continente, un giorno sì e l’altro pure, in un tourbillon di pseudovertici per ripetere a se stessi e a un pubblico vieppiù distratto e disinteressato, perché semplicemente stufo, che bisogna arrivare ad una “pace giusta” tra Ucraina e Russia. E cioè: 1) ristabilire i confini del 2014 tra i due Paesi (la guerra è stata una cazzata, beviamoci un bicchiere alla memoria del milione di vittime e non ci pensiamo più) ; 2) continuare a fornire armamenti e denaro al regime di Kiev perché è un dovere politico, strategico e – diciamola tutta – persino morale, dal momento che in Ucraina c’è democrazia all’occidentale (ma non si celebrano elezioni) a differenza che in Russia (dove alle urne ci si va); 3) procedere a ritmo sostenuto a riarmare l’Europa non tanto per favorire una riconversione industriale, bensì per precauzione verso le intenzioni del Cremlino.

Infatti, non riuscendo dopo oltre tre anni a riprendersi completamente terre e popolazioni russofone finite per grazie ricevute nell’Ucraina orientale (e che gli ucraini occidentali vogliono mantenere perché ci si sono ormai affezionati ed è divertente reprimerle), l’orco Vladimir Putin potrebbe decidere d’invadere tutto il resto del Vecchio Continente, da Oslo a Lisbona passando per Atene, e farne un solo boccone! Donald Trump fa gli interessi degli Stati Uniti, “America first”, poi quelli degli alleati. Vuol vendere la sua inquinantissima energia, i suoi armamenti, la sua tecnologia, le produzioni che la reindustrializzazione promette.

Trump guarda alla Cina, invia portaerei e mòniti negli oceani Indiano e Pacifico, guarda all’Artico, ultimo ‘forziere’ del pianeta, e quindi alla Russia, ch’è Europa e storica nemica della Cina. E proprio ricordando il proverbio latino che Mao fece proprio , è convinto che il “nemico del mio nemico è mio amico”. E almeno convincere Mosca a riprendere un po’ le distanze da Pechino, casomai non potesse trascinare Mosca al suo fianco, dopo trentacinque anni di azioni avverse e provocazioni nel tentativo di corrodere e smembrare l’impero multinazionale e multietnico come suggerito dal complesso militar-industrale e dai “neocon”.

Avanzammo la previsione tempo addietro dell’ineluttabilità di un summit Trump-Putin per sancire un accordo. Ma già se segnasse una svolta di pace, fondata sul coraggio della rinuncia ai massimi obiettivi desiderati dalle controparti, potremmo accontentarci: sarebbe un successo se servisse a indicare il percorso da seguire per una tregua e un successivo trattato di pace. Le ultime indagini demoscopiche indipendenti rilevano in Ucraina la stanchezza verso questo conflitto suicida: il 73% vorrebbe che terminasse e si avviasse la ricostruzione accompagnata da una lotta decisa contro la corruzione, prosperata finanche sugli esoneri dalla leva obbligatoria.

E anche in Russia i sondaggi indicano che, sì, Putin raccoglie il favore della gran maggioranza dei compatrioti ma nella popolazione, segnatamente quella urbana, cresce il desiderio della pace. Trump ha dalla sua pure questi dati per quadrare il cerchio. Intuisce probabilmente che chiunque sostituisse Putin al Cremlino difficilmente sarebbe altrettanto disponibile al negoziato, con la Nato giunta quasi alle porte di Mosca e con trattati scaduti e-o incerti su limitazioni di testate e di missili nucleari a lungo, intermedio e medio raggio e armi atomiche ‘tattiche’, e con l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale da regolamentare in capo bellico. Di buon auspicio è che il vertice si svolga in Alaska, uno spazio di confine che Russia e Stati Uniti si scambiarono poco più di un secolo e mezzo fa.

Ghiacciai immensi ed allora ritenuti perenni. Un errore venderla, ma con il senno del poi, da parte dello zar Alessandro II, nella primavera del 1867, con il peso sia della sconfitta nella guerra di Crimea (la proiezione di Mosca verso Costantinopoli era stata bloccata da Londra e Parigi), sia del costo delle riforme sociali ed economiche avviate con l’abolizione (tardiva ma non certo per sua colpa) della servitù della gleba. Difficile, inoltre, controllare uno spazio che avrebbe potuto contenere lo stesso settentrione californiano (Fort Ross). La Russia era spopolata, come sempre in rapporto all’estensione dell’impero, come ancora nel 1990, come ancora oggi nonostante la perdita del Centrasia. Fu, invece, una incredibile fortuna per gli Stati Uniti acquistare l’Alaska, grazie all’acume del ministro degli Esteri, William H. Seward, il quale convinse il presidente Andrew Johnson e trattò con l’ambasciatore russo, il barone Edouard de Stoeckl. Prezzo al ribasso: poco più 7 milioni di dollari di allora. Sapevano che a San Pietroburgo i soldi servivano.

Il segretario di Stato non superò i dubbi che dai piani alti della politica contagiavano l’opinione pubblica, ma gli Stati Uniti da poco usciti dalla guerra civile si rafforzavano scavalcando il Canada “legittimista” e controllandolo a tenaglia, si proiettavano sul Polo quasi sulla testa del Vecchio Continente e di lì a poco si sarebbe scoperto l’oro, poi il petrolio. Gli Usa, d’altronde, s’erano sviluppati non solo con guerre di conquista, con lo sterminio di circa quindici milioni di ‘pellerossa’ e l’occupazione delle loro terre, ma pure con l’acquisto di territori per spagnoli e francesi indifendibili.

Trump è sicuro che questo sia il momento di strappare un successo internazionale. In casa hanno finora funzionato i dazi e la lotta all’immigrazione illegale. Sul piano internazionale il rilancio degli Accordi di Abramo, il compromesso in Siria, la ‘lezione’ ai fanatici islamisti sciiti con il ridimensionamento dell’Iran, assieme al nuovo interesse per gli Usa in Africa, il contenimento commerciale e geostrategico della Cina e la pace tra Armenia e Azerbaijan, due repubbiche dell’ex Unione Sovietica a confine tra Caucaso, Centrasia e Medio Oriente, pace storica firmata a Washington: un avvenimento che rappresenta una sconfitta diplomatica per l’Europa, incapace di raggiungere un compromesso.

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