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l'analisi
31 Agosto 2025 - 10:54
Le Regioni da sempre sono state motivo di contrastanti giudizi. Tra i primi ad avanzarne lungimiranti riserve vi fu Alcide De Gasperi, artefice della rinascita postbellica. Oltre a paventarne il rischio che potessero destare rigurgiti preunitari, egli previde e temette le strumentalizzazioni politiche. Intuibili in un periodo in cui, in seguito al Trattato di Yalta e la spartizione delle aree di influenza tra i Paesi vincitori della guerra, si formarono due blocchi contrapposti: quello occidentale e l’altro sovietico. Il primo, visto con favore dalla Dc e dai partiti laici intermedi, il secondo, invece, dal Pci e dalle sinistre.
Le riserve degasperiane risulteranno fondate quando, nel 1970, con il varo effettivo delle regioni, slittato di venti anni, e le prime consultazioni elettorali, le regioni rosse di tradizione comunista, appena elette, cominciarono ad alimentare una sottile conflittualità con i governi centrali a guida Dc. Fungendo, si disse, da “cavalli di Troia”, per una graduale scalata a Palazzo Chigi. Da allora di qui il motivo di questa breve sintesi storica si cominciò a indebolire lo spirito fondante e originario del decentramento,rivolto a instaurare una vicinanza maggiore con le realtà locali, einvece si puntò a tutt’altro, a creare roccaforti di potere per avere più voce in capitolo a livello nazionale.
Un disegno favorito successivamente anche dall’introduzione dell’elezione diretta dei presidenti delle Regioni, trasformatisi in onnipotenti governatori, in nuovi viceré. In precedenza nel Nord si lanciò anche l’idea delle macroregioni, una confederazione tra le più forti del Nord e del Centro, una minaccia per l’unità del Paese, scongiurata poi da veementi e generali reazioni. Ma se questo disegno fallì, non si riuscì però a bloccare la crescente “brama di potere”, le cui conseguenze si possono misurare oggi dalla lotta senza pari per “le investiture” degli aspiranti governatori. Particolarmente segnalatasi nella nostra Regione per un baratto della peggiore ipocrisia e spregiudicatezza finalizzato per escludere il governatore De Luca da ogni gioco, e però, allo stesso tempo, tenerlo in campo.
Difatti invitato da tempo a scomparire dalla scena politica regionale, il Pd, avendo valutato la sua cospicua dote elettorale, lo ha invitato a “comparire”, con un singolare patto da mago Silvan, di mantenerlo “dentro e fuori il cilindro delle candidature”. Roba da ipnosi. Giova sottolineare i passaggi di questo sortilegio: De Luca dà il via libera a Fico, suo irriducibile avversario per dieci anni, nella corsa a governatore; Fico in cambio ottiene dal Pd che il figlio di De Luca diventi il segretario regionale del Pd, diciamo per acclamazione diretta. In tutto questo, tenendo presente che il discorso progettuale di Fico sarà incentrato sulla discontinuità, alla fine De Luca dovrà votare contro se stesso e disconoscere il suo operato. Insomma, siamo nel campo della ritrattazione concordata per fini di spartizione, un patto non di riconoscenza, ma di conclamata “disconoscenza” per accontentare le voci di dissenso dei democratici, già firmatari di un documento contro uncompromesso indigeribile.
Aspettando ora che Fico ci legga il suo compitino di alto profilo sulla sua investitura acrobatica, dobbiamo essere grati a Salvatore Micillo, coordinatore regionale del Movimento 5 Stelle, che ha anticipato alcune linee guida di una Regione a trazione grillina. «Noi – ha detto – ci siamo. Partiamo come sempre dal progetto, dalla visione e dal futuro che vogliamo costruire per la nostra regione. Per noi il prossimo ciclo di governo deve sostanziarsi in una nuova centralità di Napoli, della sua area metropolitana e della sua classe dirigente, cosa che non è avvenuta in quest’ultimo decennio». Parole che in modo lampante colpiscono e sotterrano l’attuale governatore, il quale, per salvare il suo personaggio crozziano, ha dichiarato che “parlerà sempre”. Ma, come è sotto gli occhi di tutti, il lanciafiamme è diventato un accendino.
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