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l'opinione
04 Ottobre 2025 - 09:52
Vassalli, valvassori e valvassini non sono mai scomparsi: hanno semplicemente cambiato abiti e palazzi. Oggi non governano più castelli e terre, ma seggi parlamentari, poltrone ministeriali, incarichi nelle aziende pubbliche e partecipate. Non si combattono più battaglie con spade e lance, ma con alleanze, fedeltà e appartenenze dinastiche. Il linguaggio può sembrare anacronistico, ma rende bene l’idea di una politica che, da decenni, sembra aver riscoperto la logica del feudo, dove il potere non si guadagna per merito e non si perde mai del tutto, ma si eredita, si conserva, si tramanda. La fotografia è nota: stessi nomi che ritornano ciclicamente, figure che passano da un ruolo all’altro con sorprendente naturalezza, leader che sopravvivono a sconfitte, scandali, persino al crollo dei loro stessi partiti.
Quando una porta si chiude, ce n’è già un’altra aperta, pronta ad accoglierli. I partiti si trasformano in corti autoreferenziali, dove la fedeltà al capo vale più delle competenze, e dove i benefici si distribuiscono in base a logiche di appartenenza, non di servizio alla collettività. Eppure, nel Medioevo almeno esisteva un re, figura teorica in grado di limitare i feudatari più ambiziosi. Oggi, chi ricopre quel ruolo? La Costituzione prevede strumenti chiari di controllo: Parlamento, Magistratura, stampa libera, società civile. Ma nel tempo questi contrappesi si sono logorati. Il Parlamento ha perso la sua centralità, ridotto spesso a ratificare decisioni prese altrove; la Magistratura è diventata terreno di scontro, più protagonista essa stessa che strumento imparziale; la stampa, salvo rare eccezioni, dipende da equilibri editoriali ed economici che ne limitano la libertà; la società civile, infine, è sfiduciata, frammentata, poco incline a esercitare pressione costante.
Il risultato è che i feudatari moderni si muovono con una libertà che i loro predecessori medievali probabilmente invidierebbero. Restano al centro della scena politica anche quando gli elettori li hanno respinti, trovano collocazione in nuove coalizioni senza rinunciare alle vecchie, governano più per la capacità di restare che per quella di cambiare. Ma se nel nostro sistema democratico i cittadini dovrebbero essere i veri sovrani, perché allora il controllo non funziona? La risposta è amara: perché i sovrani hanno rinunciato a esercitare il loro potere. La partecipazione civica si esaurisce spesso nell’atto del voto, percepito come inutile, e nel lamento postumo. Si accetta come inevitabile che le stesse figure restino sempre in sella, che i beneficiari del sistema continuino a scambiarsi poltrone come feudi.
Ma la democrazia vive di controllo costante, non di delega in bianco. Spezzare la catena feudale non significa sognare rivoluzioni impossibili: significa pretendere trasparenza, introdurre limiti alla durata dei mandati, costruire una cultura politica che premi davvero competenza e responsabilità. Significa soprattutto tornare a essere cittadini vigili e non sudditi rassegnati. Senza questo, la domanda resta sospesa e inquietante: chi controlla i feudatari?
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