Speciale elezioni
l'analisi
09 Novembre 2025 - 10:34
Nella storia ultracinquantennale della Regione Campania abbiamo assistito a varie e complesse vicende. Tra le tante vogliamo ricordarne solo una, lontana e molto umiliante, protrattasi per mesi di una “pubblica delegittimazione” di un’assessora alla Salute, perché il suo operato non rispondeva più alle direttive perentorie di un arrogante capopartito. Mai però si è giunti a una scelta di un aspirante presidente della Regione, come quella avvenuta di recente, riguardante il grillino Roberto Fico, designato a successore di De Luca, attraverso un percorso intricato, ambiguo, tra “armistizio e baratto”, dopo mesi di manovre, compromessi, di implacabile, insultante guerriglia, mentre il governatore era nei pieni poteri istituzionali.
Tutto però fatto passare come una normale dialettica politica, a dire il vero, una di quelle operazioni da classico baratto: “Io do questo a te, e tu dai questo a me”. Nella fattispecie per convincere De Luca a uscire di scena e in cambio della sofferta decisione incassare la nomina per direttissima del figlio Piero a segretario regionale del Pd. Poi rimasto però in lizza, con una lista di fedelissimi riferimenti per contarsi, quando servirà farlo a urne chiuse. Sicuro che il Pd non avrebbe mosso e non ha mosso un dito per bloccarlo, sapendo molto bene che il suo tesoro elettorale di consensi per vincere vale più delle piazze di Landini e delle “piazzate” da karaoke di Conte, Schlein, Bonelli e Salis piangente.
Ma, in questa operazione è sfuggito qualcosa di molto importante, il tacito impegno, non scritto, tra opportunismi e opportunità, di non poter parlare di discontinuità rispetto al decennio deluchiano e non darne più giudizi severi come “paternalista e clientelare”, bensì additarlo a modello di buon governo. Giusto o non giusto che sia tutta questa “barattaria”, l’euforia per aver superato lo “scoglio De Luca” non ha fatto riflettere abbastanza il Pd e la sua flottiglia, troppo frettolosi nella rinuncia a critiche e obiezioni.
Avvilente e mortificante in sé come un limite alla libertà di pensiero, a maggior ragione per un candidato aspirante governatore che ha promosso concerti di vaffa per guadagnarsi consensi. È questa la insostenibile “anomalia” della sinistra nella campagna elettorale in corso. Non è una nostra insinuazione ma la constatazione oggettiva della consegna del silenzio di Fico, nei cui discorsi, molto “discorsivi” per non dire altro, emerge una sola preoccupazione: non rischiare un testacoda.Un genere di silenzio il suo, che Samuel Beckett, nelle sue geniali schedature, definiva di convenienza.
Emerso anche in una recente intervista apparsa sul Mattino, martedì scorso, a firma di Adolfo Pappalardo, in cui dice tra molte altre ovvietà: “Pensiamo a incentivi o defiscalizzazioni per le aziende o a una defiscalizzazione per quelle che delocalizzano ma anche a bonus per nuclei familiari disposti che vogliono trasferirsi altrove…” e aggiunge: “Noi possiamo non solo lottare contro lo spopolamento, ma cercare di fare anche un’operazione di ripopolamento”. Una chiusa scioglilingua che, nel leggerla, ci ha fatto venire in mentelo schematismo di una campagna venatoria, in cui su un cartiglio era scritto: “Divieto di caccia, ripopolamento”.
A parte questo, nel momento in cui un documento ufficiale di oltre cento tra cardinali vescovi, abati ha lanciato un accorato appello, affermando che le “aree interne”, da dove Fico vuole spiccare il volo per Santa Lucia, si avviano verso un declino irreversibile, suggerire che servono subito gli incentivi fa il paio con chi pretende di curare il cancro con il bicarbonato.
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