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Ponte, logistica e il tabù delle grandi opere al Sud

Connettere la più grande isola del Mediterraneo al continente significa prima di tutto sviluppo

Ponte, logistica e il tabù delle grandi opere al Sud

È drammatico il calvario cui sono sottoposte le opere pubbliche al Sud. Non vedono l’ora di sindacarle. Nel Mezzogiorno, per la pubblicistica nazionale a maggioranza settentrionale, ogni grande opera pubblica è tabù. Provenendo da territori abituati al parassitismo statale da decenni, non si capacitano di come si possano spendere soldi sotto Roma. Quindi si affannano a sporcare il dibattito pubblico, strumentalizzando e mistificando (inevitabilmente orientando la classe politica e dirigente) le motivazioni della pronuncia della Corte dei Conti, sentenziando su costi, congruità, ammortamento e financo sulla possibilità di realizzazione.

È la solita macchina del fango a intermittenza, che tace sui 10 miliardi spesi per il Mose, con decine di milioni annui di manutenzione (un meccanismo mangia soldi perfetto, in luogo di altre soluzioni modello olandese ma senza rendita, quindi scartate); sulle imminenti Olimpiadi che la classe politica lombardo-veneta ribattezzò dell’autonomia per sottolineare che il governo non avrebbe messo un solo euro, salvo sborsarne 6 (dagli 1,4 iniziali); sui 10,5 miliardi del tunnel del Brennero; sugli 11 miliardi della tav Torino-Lione; sui 15 miliardi regalati a Genova dopo la tragedia Morandi, con la costruzione della nuova diga foranea di 1,5 miliardiper accogliere le grandi navi porta container che sancirà definitivamente il sorpasso sul porto di Gioia Tauro, già attrezzato e pronto, ma da decenni senza investimenti e senza collegamenti con la rete ferroviaria. E via all’infinito, basta spulciare i database pubblici o le delibere del Cipes di questi decenni.

È il modello della “locomotiva del Nord”, tanto caro anche agli ambienti accademici (da encomio le bordate dei rettori di alcune università milanesi sulla necessità di investire solo nella città come volano per l’intero Paese), che da più di trent’anni drena risorse in un’unica direzione, ghettizzando il Mezzogiorno nei soli fondi europei e costringendo l’intera Italia in una spirale di immobilismo economico e produttivo certificato ogni anno da tutti i più autorevoli e indipendenti centri di ricerca e statistica nazionali e internazionali, al netto dei trionfalismi governativi per pochi decimali di crescita annui (tra l’altro drogati da superbonus e pnrr).  

Connettere la più grande isola (una sub-nazione) del Mediterraneo al continente, significa prima di tutto sviluppo. Siamo un approdo naturale, il primo per i traffici che arrivano da Asia e Medio Oriente via Suez, ma le grandi navi preferiscono spendere settimane di navigazione per raggiungere i porti del Nord Europa, come Amburgo e Rotterdam. Se guardiamo la posizione geografica, il Sud dovrebbe essere un’immensa area logistica. A maggior ragione per la rinnovata centralità del Mediterraneo negli ultimi anni e in un futuro imminente per la contiguità con l’Africa che secondo le stime nel 2050 avrà un quarto della popolazione mondiale con un’età media di 25 anni (ultimo rapporto Save the Cildren).

Il ponte serve a realizzare i corridoi merci/persone verso l’Europa (che questa ci chiede da decenni) e a connettere il sistema dei trasporti meridionali, unendo le economie regionali. In tutto questo si inseriscono le Zes, le zone economiche speciali (cui fanno da contraltare le Zone logistiche semplificate del Nord, per non scontentare nessuno), che hanno inopinatamente esteso senza criterio a tutto il Sud: concentrare gli investimenti e la fiscalità di vantaggio nelle aree industriali insediate tra porti e retroporti: ma se non fai infrastrutture, quindi ponte e ferrovie, è tutto inutile.L’altra sponda del Mediterraneo non sta a guardare: il porto di Tanger Med, in Marocco, è stato costruito nel 2004 (e inaugurato tre anni dopo, sic!) e in 20 anni sta scalando le classifiche di movimentazione container.

Mentre i nostri porti, come Gioia Tauro e Augusta, cancellati dalle missioni di sviluppo del Pnrr (che per il Sud ha previsto il solo sviluppo turistico), agonizzano senza investimenti. Volendo attenzionare la questione economica, è proprio l’assenza di un’adeguata rete infrastrutturale al Sud che pesa per il 2% del Pil (circa 30 miliardi annui), senza contare i costi per l’insularità, misurati in 6,5 miliardi annui (secondo gli ultimi studi dell’assessorato all’economia della Regione Sicilia).Tra l’altro in ottica europea il futuro del trasporto è su rotaia, consentendo di diminuire le emissioni e parallelamente decongestionare le autostrade (quindi minore manutenzione).

Chiaramente il ponte sullo stretto non esclude altre opere vitali come strade e ferrovie secondarie. Ma il leit motiv dominante è proprio quello: “prima le opere necessarie”, si legge e si ripete ad abundatiam, senza fare né le une né l’altra. In uno Stato che tratta tutti i cittadini allo stesso modo, e non in base al codice di avviamento postale, andrebbero fatte entrambe. Se vogliamo che tutto cambi, urge un cambio di paradigma: investire nel Mezzogiorno e recuperare decenni di abbandono, dando nuova linfa all’intero sistema Paese e al Nord, oggi il vero malato d’Europa (cit. Adriano Giannola, presidente Svimez).

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