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I PERSONAGGI

Il manager che ha scalato la galassia del calcio

È un manager ed è stato uno dei primi e più importanti procuratori sportivi della storia del calcio italiano. Enrico Fedele (nella foto con Fabio Cannavaro) attualmente è opinionista sportivo per televisioni private e carta stampata «Sono nolano purosangue e sono nato a piazza Giordano Bruno. Non è un caso perché ho la coerenza del nostro filosofo la fede per San Paolino, santo patrono della città e perchè sono ammalato della festa dei Gigli. Papà faceva il veterinario ed era anche un grande competente di calcio. Aveva il culto di Valentino Mazzola, tragicamente morto insieme a tutta la squadra del Grande Torino nella tragedia di Superga, ed era tifosissimo del Napoli. Questa sua passione me l’ha trasferita. Quando ero poco più di un bambino, ogni domenica in cui gli azzurri giocavano in casa, partivamo alle 10 del mattino da Nola con un treno della Circumvesuviana che faceva tutte le fermate. Giunti alla stazione terminale a Porta Nolana, prendevamo il filobus per andare allo stadio del Vomero, oggi “Collana”, a piazza Quattro Giornate. Allora la partita si vedeva in piedi e papà mi teneva sulle sue spalle per farmi vedere bene. Ricordo ancora la rosa dei giocatori dei primi anni ’50: Casari, Comaschi, Vinyei, Castelli, Gramaglia, Granata, Vitali, Formentin, Jeppson, Amadei, Pesaola, Delfrati, Cassin, Sessa, Amicarelli, Astorri, Scopigno, Dreossi. Ho impressa nella memoria la storica vittoria nel 1958 conto la Juve di Charles, Sivori e Boniperti per 4 a 3 con l’ultimo gol segnato da Bertucco che fece esplodere di gioia lo stadio. L’allenatore era Amadeo Amadei. Nella prima adolescenza ci trasferimmo a Benevento».

Nel capoluogo sannita ebbe il battesimo come calciatore.

«Avevo 15 anni e iniziai a giocare con la squadra cittadina. Uno dei miei primi presidenti è stato Luigi Abete, figlio del cavaliere Antonio che mi predisse una futura brillante carriera come dirigente sportivo. Ricordo che tutti andavamo a fare i contratti con lui che si arrabbiava per gli alti ingaggi che chiedevano i calciatori. Io invece gli dicevo: “Cavaliere con voi firmo in bianco perché sapete come regolarvi con me”. E lui a Natale e a Pasqua mi dava 100mila lire. L’altro figlio, Giancarlo, che è stato presidente della Figc, allora giovanissimo, ci seguiva nelle partite e negli allenamenti».

Fino a quando ha militato nelle file del Benevento?

«Ho fatto la serie D e ci sono rimasto fino al ’65-’66. Poi fui notato da un dirigente del Foggia. Ho giocato con la squadra pugliese solo un anno perché mi venne l’ernia al disco. Provai a giochicchiare ancora con il Benevento ma poi decisi di rientrare a Nola a casa dei nonni».

E che cosa fece?

«Misi su una squadra di giovani che fecero un campionato eccezionale. Ricordo che comprai Marco Fracas che poi giocò nella Salernitana. Dopo qualche anno il presidente Ernesto Mazzoni mi rivolle a Benevento dicendomi che ero pronto per fare l’esperienza come direttore sportivo e talent scout. In quel periodo conobbi Antonio Sasso, il direttore del “Roma”, con il quale ho un’amicizia ormai cinquantennale».

Ci racconti.

«Antonio era giornalista sportivo del “Roma” e seguiva il Benevento. Tramite il marchese Capece mi invitò a fare il Torneo Intersociale, uno dei primi. Il mio ruolo era mezzala di punta, il numero 10. Mi aggiudicai il premio come migliore giocatore, costituito da un ciclomotore “Ciao” della Piaggio. Lo sponsor della squadra era il concessonario della Lancia, Bellucci. L’anno successivo con Antonio Sasso creammo la “Stella Nera” con i colori della Frattese. Mentore fu il compianto giornalista Francesco Landolfo».

Nel 1982 frequentò il corso per direttore sportivo tenuto a Coverciano da Italo Allodi.

«Ero l’unico ds di serie C, gli altri erano della serie A e B. C’erano tutti quelli che hanno fatto la storia del calcio e docenti molto bravi dell’Università Bocconi di Milano. Fra tutti Gianfranco Piantoni che insegnava strategia aziendale e management dei servizi. Feci amicizia con Previti, Govoni, Sbardella, Pastorello, Beltrami. Conobbi anche Beppe Bonetto, uno dei più grandi direttori del Torino e poi del Napoli. È stato il mio mentore e mi ha insegnato alcune cose fondamentali del calciomercato».

Quali giocatori acquistò grazie anche all’amicizia con Bonetto?

«Moltissimi giovani del Torino. Uno fra tutti Ermini. Poi ebbi l’intuizione di prendere dal San Martino Valle Caudina il portiere Abate. L’allenatore del Benevento era Materazzi che lo fece esordire in serie C contro la Salernitana. Successivamente venne anche al Napoli, ma la dirigenza partenopea non guardava mai “promesse” che venivano da fuori e il ragazzo ritornò a Benevento».

Quali sono i criteri seguiva nella selezione delle giovani promesse?

«Il principio che ho sempre usato nel selezionare i giovani è che un calciatore deve avere o tecnica o fisicità o personalità. Basta che un ragazzo di 13-14 anni abbia solo una di queste caratteristiche perché si possa “lavorare” con lui per fargli acquisire anche le altre».

Ritornando alla sua carriera di dirigente sportivo, dopo una parentesi alla Regina, andò a Caserta dove fece un’altra bella esperienza.

«Avevo il “benestare” di Mazzoni il quale pretese che comunque rimanessi il suo fidato consigliere. A Reggio Calabria andai perché il direttore Franco Iacopino, che era stato mio collega di corso a Coverciano, mi fece un’offerta economica che non si poteva rifiutare. L’allenatore era il mio amico Franco Scoglio. A Caserta fui chiamato dal presidente Farina, altra persona di primissimo livello. Mi diceva: “compri chi vuole e venda chi vuole. Ho in lei la massima fiducia. Faccia, però, in modo da darmi un utile dalla campagna acquisti”. Rinnovai la Casertana con tutti giovani che prendevo sempre dalle squadre campane tra cui la Frattese, l’Afragolese, l’Ercolanese. Tra questi Pasquale Suppa, un centrocampista di Durazzano di appena 17 anni. Mi colpì molto perché lo vidi giocare contro il fantasista Paolo Doto, che praticamente non toccò palla».

Con la Casertana raggiunse risultati molto lusinghieri.

«Abbiamo sempre centrato la Coppa Italia che allora si giocava con le squadre di serie A. Giocammo con la Fiorentina e con il Napoli di Maradona. A Firenze pareggiamo 1 1 e a Napoli il primo tempo stavamo 0 a 0, poi si svegliò Maradona, segnò e perdemmo 3 a 0. Posso affermare che Benevento mi ha fatto il battesimo, Caserta è stata il mio trampolino di lancio».

In questo periodo fece fare un grosso affare all’avvocato Mazzoni. Quale?

«Un giorno incontrai Ariedo Braida che, finita la carriera come calciatore, era diventato allenatore prima del Monza di Adriano Galliani e poi dell’Udinese. Aveva visto giocare il portiere Abate e lo voleva a tutti i costi. Lo riferii a Mazzoni il quale mi disse che per lui andava bene a condizione che avesse un miliardo di lire. Se fossi riuscito a realizzare la cessione a quel prezzo, come bonus mi avrebbe regalato una mansarda in un parco che aveva costruito da poco a Benevento dove abitava mia madre. Gli feci capire che per rendere interessante la cessione a quel prezzo bisognava aggiungere un altro calciatore. Gli proposi Luigi Corino. Conclusi la trattativa per un miliardo e 10 milioni. Mazzoni mi regalò la mansarda».

Dopo i successi di Caserta giunsero le delusioni di Salerno. Perché?

«La Salernitana meritava la serie A perché aveva una squadra fortissima. L’allenava Claudio Tobia, lo chiamavano il “cinghiale”. L’incontro decisivo per la promozione fu contro il Cosenza del mio amico Gianni Di Marzio. Era un volpone e sapendo che l’accoglienza allo stadio non sarebbe stata tra le migliori, si presentò negli spogliatoi solo mezzora prima del fischio di inizio. I giocatori si erano cambiati nel pullman. Prendemmo due pali e perdemmo con un gol di Padovano. In serie B andò il Cosenza».

Siamo giunti alla vigilia di un cambiamento epocale per la figura del direttore sportivo. Ce ne parla in sintesi?

«Dopo Salerno avevo cominciato a intuire che qualche cambiamento importante stava per accadere nel mio campo. Veramente il sentore lo avevo già avuto durante il corso fatto a Coverciano quando ci fu chiesto di svolgere una tesina sul futuro del ruolo del direttore sportivo. Io mi espressi sulla progressiva marginalità che avrebbe avuto questa figura. Ebbene, il caso nacque con il calciatore belga Jean-Marc Bosman che, a contratto scaduto, si vide vanificare la sua volontà di passare al club francese del Dunkerque in quanto questo non offrì all’altra squadra una sufficiente contropartita in denaro. Il 15 dicembre del 1995 fu approvata una nuova norma in base alla quale i calciatori dell’Unione Europea potevano trasferirsi gratuitamente, alla scadenza del contratto, a un altro club purché facente parte di uno Stato dell’Ue. Ne veniva di conseguenza che i giocatori interessati, non conoscendo le logiche del calciomercato, avevano bisogno di essere rappresentati. Nacque la figura professionale del procuratore che poi ebbe anche riconoscimento giuridico. Dopo poco in Italia nacque l’Associazione Italiana Agenti Calciatori e Società, alla cui creazione e regolamentazione ho contribuito insieme a Bonetto. Presi il patentino di procuratore Fifa, che mi consentiva di fare l’agente in tutto il continente».

Quando ha incontrato Fabio Cannavaro, il suo gioiello?

«Lo vidi per la prima volta al campo Paradiso a Soccavo Giocava terzino sinistro nei ragazzi del Napoli. Era brutto fisicamente ma aveva una vitalità, una ferocia e un’aggressività mai viste. Però sbagliava i tempi. Dissi tra me e me che se veniva disciplinato sarebbe diventato un campione. A quei tempi tutti i ragazzi del Napoli erano sotto la mia giurisdizione. Parlai con suo padre, Pasquale Cannavaro, il quale mi disse: “Questo è tuo figlio, fai quello che ritieni giusto”. Che bella persona! Vorrei che tutti prendessero esempio dalla famiglia Cannavaro. Cominciai a seguire Fabio».

Qual è stato il primo allenatore del Napoli che ha creduto in lui?

«Ottavio Bianchi. Lo fece esordire in una partita a Torino tra Juventus e Napoli. Non giocò bene ma gli disse: “Innanzitutto continua a studiare. Poi sono convinto che avrai un grande avvenire come calciatore”. L’anno successivo il Napoli lo voleva cedere. Marcello Lippi, nel secondo tempo della partita fuori casa con la Cremonese che il Napoli stava perdendo, tolse dalla squadra Nela, Policano e Pari e mise in squadra Bia, Pecchia e Cannavaro. Da quel momento Fabio prese il volo».

Trattò la sua cessione dal Napoli al Parma.

«Voleva rimanere, ma per sanare la situazione finanziaria del club partenopeo lo cedetti per 13 miliardi di lire al Parma. In quel contesto accettai l’offerta di Tanzi di diventare responsabile tecnico per la sua squadra e diedi le dimissioni da procuratore sportivo. Con il Parma abbiamo vinto due Coppe Italia, una Supercoppa italiana che ho io a casa, e una Coppa Uefa».

Che cosa rappresenta per lei Fabio Cannavaro?

«Ha costituito il coronamento della mia storia. Posso affermare che la soddisfazione che mi ha dato Fabio Cannavaro, campione del mondo, pallone d’oro, riconosciuto come miglior calciatore Fifa avendo vinto anche due campionati col Real Madrid, non la potrà avere nessun napoletano, perché non so se ci sarà qualche giocatore della nostra città che potrà uguagliarlo e che potrà avere come procuratore un napoletano, anche se lo sono solo di adozione perché sono nolano. Mi ha dedicato una fotografia con la Coppa del mondo conquistata a Berlino con questa dedica: “al mio secondo papà”. Che dire di più. Continuiamo a sentirci con frequenza anche ora che sta in Cina».

Oggi che cosa fa?

«Ho passato il testimone a mio figlio Gaetano che è il manager director della “Fedele Management” che ho fondato 20 anni fa e faccio l’opinionista televisivo per Canale 21 e Televomero. Il primo che mi hai spinto a farlo è stato Ciccio Marolda. Mi invitò alla trasmissione di Canale 21 nel 2004 e da allora ce le siamo fatte tutte. Scrivo anche sul “Roma” e faccio “La pagella dell’inFedele” perché non ho padroni e dico quello che penso. Mi arrabbio con chi parla di calcio senza averne la competenza. Bisogna conoscere il backstage, il dietro le quinte, per capire come si costruisce lo spettacolo più bello del mondo».

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