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I PERSONAGGI

De Fusco, ricercatrice testarda

Dirigente medico pediatra presso l’azienda ospedaliera di rilievo nazionale Santobono-Pausillipon, Carmela De Fusco (nella foto) è responsabile della Diagnosi e cura delle malattie ematologiche rare dell’infanzia. «Sono nata e cresciuta ai Colli Aminei, zona residenziale del Vomero alto sorta negli anni Sessanta. Mio padre era un affermato topografo, noto a livello nazionale e locale avendo partecipato in maniera significativa alla ricostruzione del Dopoguerra. Si innamorò del nuovo insediamento urbano nato nelle ampie aree verdi che hanno sempre caratterizzato la zona e decise di comprare lì casa. Quando ero piccola alcuni amici e parenti coglievano nei miei comportamenti una propensione versi i più piccoli al punto da considerarmi una predestinata a fare da adulta il medico pediatra. La pianificazione del mio futuro, peraltro decisamente prematura, fatta da altri mi ha accompagnato con una sensazione di fastidio fino a quando, dopo la licenza liceale, mi sono chiesta, come tanti, che cosa fare da “grande”. Sono sempre stata una persona volitiva, caparbia, determinata a decidere della mia vita senza condizionamenti. Per questo motivo feci uno studio abbastanza approfondito dei vari corsi universitari tenendo conto delle materie che al liceo mi avevano interessato maggiormente. Per un momento pensai di iscrivermi a Ingegneria ma quando il mio compagno di studi mi informò che voleva fare medicina, mi fermai a riflettere. Sapevo che era una facoltà molto impegnativa e difficile, ma la decisione del mio compagno mi invogliò a prendere la stessa strada. Amo le sfide con me stessa e con gli altri e così decisi di iscrivermi alla facoltà di medicina e chirurgia della Università Federico II».

Come fu l’impatto con gli esami che trattano argomenti poco approfonditi alle scuole superiori o addirittura non trattati?

«M’immersi letteralmente negli studi favorita e affascinata anche dall’atmosfera che si respirava nella cittadella universitaria. Mi appassionai della ricerca di “base”, che fornisce le fondamenta per ulteriori ricerche, anche a livello clinico. Cominciai a dedicare una particolare attenzione all’immunologia che si occupa del sistema immunitario, studiando gli aspetti delle difese dell’ospite contro infezioni e le conseguenze avverse della risposta immunitaria con particolare riferimento all’età pediatrica».

Al quarto anno la prima decisione importante: la scelta della tesi. Per quale branca optò?

«Pediatria. Fu una decisione più di pancia che ragionata, della quale non mi sono mai pentita. Cominciai a frequentare Neonatologia perché pediatria si studia al sesto anno del corso di laurea. La Neonatologia si occupa della epoca neonatale, in particolare delle malattie neonatali e delle nascite premature. Non conoscevo nessuno e, come sempre, non mi persi d’animo e mi presentai al primario, il professore Roberto Paludetto. Era cordiale ma molto esigente. Mi disse che dovevo dare la completa disponibilità e che non potevo frequentare altri reparti. Mi sono laureata con una tesi sul “dolore del neonato” nel 1986».

Quindi si iscrisse alla scuola di specializzazione in pediatria.

«Dovetti partecipare all’apposito concorso, lo vinsi ed entrai nella scuola di specializzazione che allora si chiamava Pediatria preventiva e puericultura. Aveva due indirizzi: il primo neonatologico, il secondo di pediatria preventiva e sociale. Mi iscrissi al primo anno, il corso di specializzazione era della durata di quattro anni. Intanto continuavo a collaborare con il prof. Paludetto il quale notò il mio zelo e la passione che avevo nel lavoro e insieme al capo del Dipartimento, il prof. Ciccimarra, mi affidò un incarico di collaborazione scientifica che consisteva nel dare il mio contributo non solo per le attività cliniche ma anche per quelle di tipo scientifico. Terminato il corso di specializzazione in neonatologia, mi iscrissi a quello in pediatria sociale che si occupa di prevenzione e cura. La sua durata è di due anni».

Dopo la specializzazione cosa ha fatto?

«Ero proiettata verso la carriera universitaria per tutto il lavoro svolto e per le ricerche alle quali mi ero dedicata, ma spesso la meritocrazia non è sufficiente per cui ero consapevole di non avere alcuna possibilità di riuscita. Poi ero diventata moglie e madre con tutti gli impegni conseguenti. Avevo sposato un collega coetaneo, Antonio Solano. Ci eravamo conosciuti nei banchi delle aule universitarie e avevamo studiato insieme per prepararci ad alcuni esami. Ci siamo laureati a poca distanza l’uno dall’altra e lui si è specializzato in cardiologia. Dopo un anno di matrimonio è nata la nostra primogenita Valentina, seguita dal secondo figlio, Salvatore. Questo mio nuovo status mi spinse a cercare un’occupazione in una struttura sanitaria. Partecipai a vari concorsi e il primo che vinsi riguardava la pediatria preventiva. Ma non mi bastava perché le mie aspettative andavano ben oltre altrimenti avrei scelto di fare il pediatra di base. La mia vocazione era per la ricerca».

Cosa fece?

«L’occasione nacque da un’informazione che mi diede mio marito che già lavorava al Pausilipon. Mi disse che il nosocomio pediatrico stava per avviare un progetto di trapianto di midollo osseo. Immediatamente chiesi e ottenni di essere trasferita in quell’ospedale. Fui notata dal primario di ematologia che cominciò ad affidarmi incarichi di volta in volta sempre più importanti che culminarono con quello che riguarda le istiocitosi dell’infanzia».

Che cosa sono?

«Le istiocitosi sono malattie rare, spesso geneticamente determinate e causate dalla mancanza o disregolazione di uno o più componenti del sistema immunitario e caratterizzate da una espressività fenotipica molto variabile. Sono rare in quanto hanno una incidenza in Italia di meno di mille casi all’anno ma sono sottostimate in quanto la loro manifestazione clinica è molto variabile e la diagnosi richiede una alta specializzazione».

E le cellule di Langerhans cosa sono?

«In particolare le cellule di Langerhans sono cellule immunitarie che originano dal midollo osseo. In questa patologia proliferano in maniera incontrollata e si infiltrano in diversi tessuti del nostro organismo, compromettendone la funzione. Prendono il nome del ricercatore tedesco che per primo le descrisse. Il nome deriva dal greco antico dentron, cioè albero, perché la loro forma è ramificata proprio come un albero. Appartengono alla famiglia dei globuli bianchi e, in ambito di sistema immunitario, hanno il ruolo di presentazione dell’antigene. Se ne riconoscono varie forme: le istiocitosi Langerhans (LCH), le più conosciute, le istiocitosi maligne e la linfoistiocitosi emofagocitica (LEF), esse variano notevolmente per età di esordio, per presentazione clinica e per approccio terapeutico».

Trattandosi di malattie rare esiste un coordinamento sul territorio e a livello nazionale?

«Sì, l’Aieop (Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica). Ha come obiettivo principale quello di migliorare le cure e l’assistenza al bambino affetto da tumore, disordini ematologici o immunodeficit e promuovere la ricerca in questo ambito. I centri aderenti all’associazione si sono riuniti in una rete collaborativa nazionale che condivide protocolli di terapia e progetti di ricerca».

Il Centro del Pausilipon appartiene alla rete?

«Certamente. Il Dipartimento di oncologia di cui faccio parte, fin dal 1992 è iscritto nella Rete Aieop».

Fa anche parte di un gruppo di lavoro a livello nazionale.

«Esiste per ogni gruppo di lavoro (GDL) un coordinatore e i componenti il gruppo; quello sulle istiocitosi è un gruppo di nove esperti all’interno del quale c’è un team ristretto del quale io faccio parte. Fin dal primo momento mi sono dedicata a studi di sperimentazione clinica in collaborazione con i principali centri europei che si occupano di questa patologia. In particolare il mio lavoro si è concentrato sullo studio delle mutazioni genetiche che sono alla base della linfoistiocitosi emofagocitica familiare (LEF). Lavorare in questo team è stata un’esperienza meravigliosa che mi ha arricchito e motivato nel mio lavoro sul campo. Su questa linea ho cercato di organizzare il mio lavoro a Napoli e negli ultimi anni ho contribuito a costruire un network di professionisti che si occupano di malattie rare per approfondire le tematiche ad esse correlate. Nel nostro Centro sono attivi i più avanzati protocolli terapeutici sperimentali internazionali e recentemente si è concluso uno studio che ha coinvolto solo 12 Centri in tutto il mondo tra cui il nostro».

Esiste un registro delle malattie rare?

«In Italia nel 2001 è stata istituita la Rete nazionale dedicata alla prevenzione, sorveglianza, diagnosi e terapia delle malattie rare; il Registro nazionale malattie rare presso l’Istituto Superiore di Sanità; l’elenco di malattie rare per le quali è riconosciuto il diritto all’esenzione dalla partecipazione al costo delle prestazioni di assistenza sanitaria incluse nei livelli essenziali di assistenza. In virtrù del Dgrc n. 61 del 10/03/2014, “Integrazione e individuazione, in via provvisoria, dei presidi di riferimento regionale per le malattie rare ai sensi del Dm 18/05/2001 n. 279”. la Regione Campania ha successivamente individuato il Santobono-Pausilipon quale presidio di riferimento regionale per il gruppo RD (malattie del sangue e organi ematopoietici)».

Ieri è entrato in vigore il Testo Unico sulle malattie rare approvato con la legge 10 novembre 2021 n. 175. Qual è la sua finalità?

«Garantire sull’intero territorio nazionale l’uniformità della presa in carico diagnostica, terapeutica e assistenziale dei malati rari; disciplinare in modo sistematico ed organico gli interventi dedicati al sostegno della ricerca, sia sulle malattie rare sia sui farmaci orfani. La legge istitutiva del Testo Unico prevede inoltre un fondo di solidarietà dedicato al finanziamento delle misure di sostegno del lavoro di cura e assistenza delle persone con malattia rara invalidi civili al 100% o disabili con connotazione di gravità ai sensi della Legge 104. Per la concreta applicazione della legge saranno ora necessari ulteriori passaggi: due decreti ministeriali».

Lei ha la “qualifica” di certificatrice. Cosa significa?

«In qualità di responsabile delle malattie rare ematologiche sono abilitata a inserire le patologie nel registro nazionale, posso fare un certificato di esenzione ticket e la prescrizione di un piano terapeutico».

Ha un sogno da realizzare?

«Un progetto che racchiude tutto il senso della mia carriera: fare conoscere sempre di più e in maniera capillare queste malattie e vedere potenziato il nostro Centro che è il punto di riferimento specialistico dell’intero meridione d’Italia».

Come scarica la tensione di un lavoro così difficile e delicato?

«Ho ripreso durante il lockdown la passione giovanile per la pittura. Dipingo sia a olio che con colori acrilici. Condivido con mio marito il piacere di sciare e andare a vela. Quando è possibile ci concediamo qualche spettacolo di teatro».

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