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I PERSONAGGI
16 Gennaio 2024 - 12:39
Luigi La Rocca (nella foto) è laureato in Lettere classiche e specializzato in Archeologia, in particolare in quella della Magna Grecia, presso l’Università di Napoli Federico II. È il Direttore Generale Archeologia, Belle arti e Paesaggio del ministero della Cultura con funzioni di direzione della Soprintendenza Speciale per il Piano nazionale di ripresa e resilienza. «Nasco a Napoli da una famiglia della media borghesia. Mio padre, ingegnere elettronico, è un funzionario direttivo dell’Enel in pensione e mia madre un’insegnante anche lei in quiescenza. Dopo le scuole inferiori ho frequentato il liceo classico al Vittorio Emanuele. La scelta fu condizionata anche dal fatto che avevo una vera idiosincrasia per la matematica. Oltre a giocare a pallone come tutti i ragazzini della mia età, praticavo a livello agonistico il tennis con risultati apprezzabili. Gioco ancora oggi quando gli impegni di lavoro me lo consentono. Lo studio del greco, del latino e della storia dell’arte destarono in me un particolare interesse che diventò poi passione. Durante una gita scolastica in Grecia, organizzata in terzo liceo, ebbi infatti la proverbiale “folgorazione sulla via di Damasco” per l’antico e per i modelli culturali della tradizione classica. In particolare fui affascinato dalla ricerca delle radici della cultura sulla quale si è formata tutta la civiltà occidentale. Rientrato a casa comunicai ai miei genitori che avrei fatto l’archeologo».
Quale fu la loro reazione?
«Papà più di mamma non la prese molto bene. Era rassegnato al fatto che non avrei mai seguito le sue orme, come invece ha fatto mio fratello, ma avrebbe desiderato che diventassi medico o avvocato, insomma settori in cui sarebbe stato più facile trovare un lavoro. Comunque accettò la mia decisione perché in famiglia noi tre figli, ho anche una sorella, non abbiamo mai subito costrizioni di alcun genere».
Si iscrisse quindi ad archeologia?
«Non esisteva uno specifico corso di laurea in archeologia ma l’indirizzo era contemplato in quello di Lettere classiche. A Napoli c’erano due università che davano la possibilità di diventare archeologo: la Federico II e l’Orientale. Optai per il primo ateneo».
A quale anno del corso di laurea si poteva scegliere l’indirizzo archeologico?
«Tra gli esami fondamentali dei primi due anni ne erano previsti due in questa materia. Dal terzo anno poi si potevano scegliere gli insegnamenti più specialistici. Era la fine degli anni ’80 e non molti intraprendevano quel tipo di studi; eravamo un gruppo piuttosto ristretto di studenti, poco più di una dozzina, per cui i contatti con i docenti erano diretti e molto coinvolgenti. Quasi subito ebbi la percezione dell’esistenza di una sorta di spaccatura, che diventava sempre più netta, tra archeologia e storia dell’arte che determinava la formazione di due profili professionali distinti: lo storico dell’arte, che studiava l’opera d’arte antica, e l’archeologo che cercava nel terreno, con gli scavi, i documenti e le testimonianze su cui basare la ricostruzione della storia sociale ed economica delle diverse società antiche: chi aveva realizzato le opere, con quali mezzi e quali materiali, con quali tecniche e per quale finalità? Alla cultura dell’oggetto bello si giustapponeva, quindi, la cultura materiale come si usa dire nel nostro linguaggio. Mi orientai verso quest’ultima e scelsi tutti gli esami che mi avrebbero consentito di studiarla e approfondirla».
Quando ha preso parte al primo scavo?
«Molto presto, già al primo anno di università. Il mio primo cantiere scuola è stato la scavo nel castello di Montella, nell’Avellinese, con il professore Marcello Rotili, docente della cattedra di archeologia medioevale. È stata un’esperienza importante perché mi sono confrontato con archeologi che avevano maturato già esperienza sul campo, ho avuto l’opportunità di sperimentare le varie metodologie che disciplinano quella delicata e non semplice attività, compresa la fase della documentazione relativa a ogni singolo strato di terreno e di reperto e ho provato le prime fantastiche emozioni che si hanno quando si confronta il “frammento” con “l’intero” studiato sui testi. Fatta quest’esperienza intrapresi altre strade».
Perché?
«Il mio interesse era rivolto allo studio della colonizzazione greca dell’Italia peninsulare meridionale cioè alla Magna Grecia. Ho avuto come maestri due grandi studiosi, l’archeologa Nazarena Valenza, e suo marito Alfonso Mele, professore emerito di Storia greca, tuttora un punto di riferimento nonostante i suoi 90 anni. Con Nazarena Valenza, mancata prematuramente, mi sono laureato con una tesi sui santuari arcaici della zona tra Sibari e Crotone che sono due delle colonie più importanti della Magna Grecia».
Dopo la laurea che cosa ha fatto?
«L’archeologo, soprattutto in quegli anni, poteva seguire due strade: la carriera universitaria o partecipare ai concorsi per accedere alla carriera presso il ministero della Cultura o alla pubblica amministrazione in generale. In entrambi i casi è necessario fare un percorso post laurea che è il dottorato di ricerca oppure la scuola di specializzazione. Vinsi subito il concorso per entrare nella scuola di specializzazione e poco dopo quello per una borsa di studio triennale per il dottorato di ricerca. Congelai la scuola e iniziai il dottorato, che allora era retribuito con un milione di lire al mese, presentando un progetto di ricerca sulla ceramica a rilievo di età arcaica nella Magna Grecia, sempre in Calabria, perché queste ceramiche erano prodotti artigianali particolari e tipici delle zone delle colonie achee di questa regione. È stata un’esperienza che mi ha arricchito molto professionalmente e mi ha fatto entrare in contatto per la prima volta con il mondo del ministero della Cultura perché per potere accedere ai reperti conservati nei depositi dei musei dovevo essere autorizzato dalla Soprintendenza territoriale».
Quando terminò il dottorato di ricerca?
«Nel 1997 e poco prima che finisse partecipai a un concorso per funzionario presso il ministero della Cultura. Era per 12 posti e mi classificai tra i primi degli idonei. Nel frattempo avevo ultimato la specializzazione. Dopo un periodo di tempo, mentre ero in vacanza con mia moglie, anche lei archeologa anche se attualmente insegna alle scuole medie, grazie allo scorrimento di quella graduatoria, mi fu proposto dal ministero per i Beni culturali, come si chiamava allora, di prendere servizio come funzionario archeologo presso la Soprintendenza archeologica del Piemonte a Torino. Ovviamente accettai anche perché eravamo giovani e poco più che squattrinati. Mi trovai in un ambiente completamente diverso da quello al quale ero abituato e facevo un lavoro prevalentemente di scrivania e ben lontano dai cantieri di scavo. Mi è stato molto utile però, perché la responsabilità della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale di un determinato ambito territoriale in qualche modo spinge a sviluppare una visione anche di tipo manageriale, ad affrontare le questioni su una scala più vasta, secondo una prospettiva che non è più solo scientifica ma che si fonda sulla valutazione dei risultati dell’azione concreta dell’amministrazione sul territorio. Dopo sei mesi fui trasferito in Calabria e la Soprintendente mi affidò il territorio dell’alto Cosentino. Era nato il nostro primo figlio e per stare più vicino a Cava de’ Tirreni, dove abitiamo ed era rimasta mia moglie, mi trasferii come ufficio a Scalea, nella torre Cimalonga».
Quindi il trasferimento per concorso interno alla Soprintendenza archeologica di Salerno e poi la nomina a dirigente.
«Sì, vinsi il concorso per dirigente nel 2009 e trascorsi un periodo alla direzione generale a Roma. Facevo parte di un gruppo di colleghi e operavamo in staff con il direttore generale. Dopo pochi mesi mi fu affidata la direzione del museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini” di Roma».
Che cosa è?
«È un grande museo inaugurato il 14 marzo 1876 dal suo fondatore Luigi Pigorini, nel centro di Roma, in un’ala del Palazzo del Collegio Romano, l’attuale sede del Ministero. Poi è stato spostato all’Eur; oggi è parte del Museo delle civiltà. È organizzato in due settori, uno dedicato alla preistoria e uno all’etnografia e, segnatamente, alla storia delle culture extraeuropee. Contiene numerose collezioni a partire da quella del suo fondatore. È stata la mia prima esperienza come direttore, con la responsabilità diretta di gestione di personale e risorse finanziarie».
Quando è stato nominato Soprintendente?
«Nel 2012 e fui destinato a dirigere la Soprintendenza archeologica della Puglia con sede a Taranto. Questa volta mi hanno accompagnato anche mia moglie e i miei figli che erano diventati due. È stata un’avventura durata quattro anni nel corso dei quali credo di aver dato un forte impulso alla tutela e alla valorizzazione dello straordinario patrimonio archeologico della regione attraverso la realizzazione di musei e parchi archeologici, primo tra tutti il Museo Archeologico Nazionale di Taranto».
Quindi il trasferimento a Napoli nel 2019.
«Sì, finalmente si realizzò il sogno di fare il Soprintendente, ma in generale direi, di lavorare per e nella mia città. L’entusiasmo era enorme e l’adrenalina aumenta vertiginosamente per la voglia e l’impegno di dare il massimo contributo possibile a favore della “mia” Napoli. I progetti erano tanti e ambiziosi ma purtroppo mi scontravo quotidianamente con una realtà difficile, a tutti nota. Non si è realizzato tutto quello che avrei voluto ma in tre anni abbiamo fatto veramente molto, grazie alla collaborazione di tutti i dipendenti della Soprintendenza che ha uno staff di altissimo livello. Sono molto felice in particolare, da archeologo, di avere riportato la ricerca archeologica della città antica al centro dell’attenzione perché ritengo la nostra storia l’elemento fondamentale dell’identità autentica della città che, come tale, deve essere meglio conosciuta e comunicata. Non a caso recentemente sono stati dedicati all’archeologia di Neapolis una puntata di “Italia, Viaggio nella Bellezza” di Rai Cultura, dal titolo “Parthenope, Neapolis, Napoli. Archeologia di una città immortale“ e l’ultimo convegno internazionale di studi sulla Magna Grecia che si tiene a Taranto e che è uno dei più importanti appuntamenti per gli studiosi di storia e archeologia sulla colonizzazione greca in Italia meridionale».
Nel 2022 si rese vacante il posto di direttore generale Archeologia, Belle arti e Paesaggio. Si aprì il bando e fu nominato lei. Di che cosa si occupa questa figura apicale?
«In estrema sintesi è al vertice dell’organizzazione centrale e periferica del ministero che si occupa della tutela e conservazione del patrimonio culturale italiano e coordina l’attività delle 43 Soprintendenze che sono le articolazioni del ministero su base territoriale».
Rispetto ai suoi tempi, come è cambiata l’archeologia “da campo”?
«Si è evoluta soprattutto in termini di multidisciplinarietà e di utilizzo di nuove tecnologie. Ciò ha fatto sì che in un cantiere archeologico ci siano diverse figure professionali e sempre più specializzate in settori specifici. Purtroppo in questo senso la formazione universitaria non è ancora del tutto adeguata anche se si stanno facendo dei passi avanti; ci si forma, quindi, soprattutto sul campo, ciò che ha consentito agli archeologi di acquisire una precisa fisionomia professionale e di organizzarsi in strutture giuridiche private, società, cooperative, che eseguono gli scavi archeologici prescritti dalle Soprintendenze, fornendo appunto le diverse professionalità necessarie attraverso committenti pubblici o privati. Naturalmente ogni fase, dal progetto all’esecuzione dei lavori, deve essere preventivamente approvata dalla Soprintendenza territorialmente competente che ne controlla la regolarità dell’esecuzione».
Ha nostalgia per quest’attività?
«Certamente è molto dinamica, espone a responsabilità dirette e consente di istaurare contatti immediati con gli interlocutori. Ma il ruolo che ricopro, come lo intendo io e come mi sforzo quotidianamente di portarlo avanti, non mi vede mai lontano dal territorio. Sono in costante interlocuzione con gli uffici territoriali, con i Soprintendenti, proprio perché sono animato da un profondo spirito di servizio che mi fa mettere innanzi a tutto l’interesse della collettività. Non ho mai lavorato per me stesso e la realizzazione di ogni singolo obiettivo del ministero della Cultura è la mia massima gratificazione, quindi il mio impegno e la mia responsabilità, ora sono di fare in modo che gli obiettivi di qualità nel campo della tutela e della conservazione, del restauro, dell’intero patrimonio culturale e paesaggistico siano conseguiti e diffusi sull’intero territorio nazionale anche attraverso le indicazioni e il coordinamento della Direzione Generale».
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